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Un contributo al dibattitito su Craxi

14 Gennaio 2010 1.267 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Son trascorsi dieci anni dalla morte di Bettino Craxi, avvenuta ad Hammamet, dopo una delicata operazione chirurgica che l’Italia gli aveva negato di effettuare in patria da uomo libero. Da allora molti giudizi su di lui sono stati rivisti e oggi si può parlare, se non di una vera e propria riabilitazione, almeno di una valutazione più equilibrata della sua opera. Craxi è stato un totus politicus. Ha cominciato a fare politica quando aveva ancora i pantaloni corti, a 14 anni, attaccando i manifesti del Fronte popolare alle elezioni de 1948, con suo padre Vittorio, già vice prefetto della Liberazione di Milano e poi prefetto di Como, che ne era capolista per il Psi. Il modo col quale i comunisti tramarono per far saltare i candidati socialisti, compreso papà Craxi, non dovette essere marginale nella formazione del carattere di Bettino, così diffidente verso il partito fratello. Ma la svolta avvenne solo nel 1953, dopo un viaggio all’Est in cui il giovane Craxi s’accorse che in quei paesi c’era, non l’agognato socialismo, ma un regime poliziesco. Dopo la svolta del 1956, a seguito, prima, del XX congresso del Pcus e poi dei tragici avvenimenti ungheresi, Craxi divenne nenniano e di Nenni diverrà in seguito il delfino. Al congresso di Venezia del febbraio del 1957 entrò per la prima volta nel Comitato centrale socialista. Fu poi, per un periodo, assessore a Sesto San Giovanni e poi, nel 1960, venne eletto consigliere comunale a Milano, dove ricoperse l’incarico di assessore ai servizi sociali. Poco dopo venne eletto segretario della Federazione milanese e nel 1968 fu deputato. Negli anni settanta, dopo il fallimento della unificazione socialista, fu a capo della corrente autonomista e nenniana del Psi e fu, a metà degli anni settanta, anche vice segretario di De Martino. Al Comitato centrale del Midas, ricordo bene (io ero un rappresentante del movimento giovanile) il candidato ufficiale alla successione di De Martino, dimessosi dopo la sconfitta elettorale del giugno 1976, era Antonio Giolitti. Ma un accordo trasversale tra i quarantenni del partito portò Craxi, quasi inaspettatamente, alla segreteria. Doveva essere un segretario debole. Si rivelò invece un segretario abile, prima, e poi decisamente carismatico. In quella fase accentuò i caratteri dell’autonomia del Psi dal Pci berlingueriano, volle tessere rapporti intensi con gli altri partiti socialisti europei, in particolare con quelli mediterranei, lanciò il tema della grande riforma delle istituzioni, provocò il confronto a sinistra sui temi del marxismo e del pluralismo economico e nel 1978 volle distinguersi dalla linea della fermezza sul caso Moro. Il Psi, che a Torino aveva lanciato il progetto socialista, proponeva non già il compromesso storico, bensì l’alternativa socialista. Furono anni entusiasmanti, soprattutto per chi era abituato, e i socialisti ormai lo erano, a subire il fascino del partito più forte e vivevano in uno stato di assoluta subalternità politica e culturale. Craxi ebbe il grande merito di resuscitare un partito morto. E ci riuscì. Quando arrivò alla presidenza del Consiglio, nell’estate del 1983,  il Psi era un partito più robusto, anche se non di molto. Quegli anni sono oggi da tutti ricordati positivamente: la lotta all’inflazione col referendum sulla scala mobile vinto, la vicenda dell’Achille Lauro, gestita in coerenza col caso Moro e cioè con l’imperativo di salvare la vita agli ostaggi, l’assenso contestato agli euromissili, ma nel contempo la difesa del territorio italiano con il temerario accerchiamento di Sigonella, la condanna dei bombardamenti americani di Tripoli e Bengasi, il nuovo Concordato sono alcuni fiori all’occhiello dei quattro anni di presidenza Craxi. E il Psi, nel 1987, saltò al suo massimo storico con il 14,3%. Poi iniziarono gli anni della stagnazione. E questo mentre nel mondo tutto cambiava. Craxi rimase immobile. Dopo la caduta del muro di Berlino, arrivò il Caf, scelta antistorica. E mentre spariva il Pci, il Psi non seppe o non volle giocare la sua partita più grande. E cioè quella della ricomposizione della vecchia divisione perpetrata nel 1921, peraltro condizionato dalla volontà confusa di Occhetto di “andare oltre”. Craxi rimase imprigionato nel cambiamento di epoca e mentre indicava agli italiani di andare al mare il referendum di Segni travolse ogni aspettativa. Il Psi pagò con un lieve calo, nel 1992, le timidezze e le contraddizioni delle sue scelte, mentre la Lega andava insediandosi quasi inaspettatamente al Nord. Poi arrivò Tangentopoli. E Craxi venne coinvolto in inchieste sul finanziamento dei partiti e reati connessi. Il Pool mani pulite si dedicò a lui con enorme determinazione, mentre Feltri sull’Indipendente spronava i magistrati nella “caccia al cinghialone”. Craxi reagì con un discorso oggi molto popolare, chiedendo, alla Camera, ai leader dei vari partiti di alzarsi e di giurare di non avere mai fatto ricorso a un finanziamento irregolare, dichiarando che presto o tardi si sarebbero rivelati “spergiuri”. Nessuno si alzò e trionfò il silenzio verità, il silenzio ipocrisia. Craxi pagò da solo i vizi di un sistema. E scelse il volontario esilio, o latitanza. Non volle pagare col carcere la pena che gli era stata inflitta con un procedimento così velocemente andato in giudicato. Scelta discutibile, ma che personalmente rispetto. D’altronde Brecht, nel suo Galileo, recitava: “Infelice l’umanità che ha bisogno di eroi”. Craxi non si comportò da eroe. Ma lottò ancora per far trionfare la verità. Chiedeva una commissione d’indagine su Tangentopoli che non venne mai concessa. Il caso C si trascinò tra polemiche e disgustosi tradimenti anche umani, fino all’epilogo tragico. Restano tre domande per i più accaniti suoi denigratori: era giusto, per il reato di finanziamento illecito, condannare un uomo all’ergastolo (a tanto portava la somma delle condanne inflittegli o in corso d’opera, considerata la sua età)? Era giusto condannare un leader politico seguendo il teorema che non è stato seguito per altri, del “non poteva non sapere”? E poi, prescindendo anche dal merito, una vicenda giudiziaria cancella una politica? Che dire allora di Giovanni Giolitti, travolto dallo scandalo della Banca romana, che viene ricordato ancora oggi per i meriti delle sue aperture sociali e politiche, che dire di Francesco Crispi, la cui scandalosa commistione tra pubblico e privato denunciata da Felice Cavallotti, non impedisce di ricordarlo anche come garibaldino temerario e non solo come presidente del Consiglio autoritario e liberticida, che dire, per stare più addentro al presente, del cancelliere Khol, costretto ad abbandonare la vita politica per un finanziamento illecito? Non si dovrebbe più ricordare il ruolo da lui avuto nella storica unificazione delle due Germanie? Un po’ più di misura e di senso della storia non guasterebbe anche per i più ruvidi e impietosi accusatori.

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