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Quando mi incontrai con Fini alla Camera

Non ho avuto molte occasioni per parlare con Gianfranco Fini. Entrammo insieme alla Camera nel 1987 (in quell’anno furono eletti, se non mi sbaglio, per la prima volta anche Veltronie e D’Alema, mentre Casini, enfant prodige, c’era già dal 1983). Allora Fini era giovane dirigente, e anche segretario del Msi, e io giovane deputato del Psi. Le relazioni erano praticamente inesistenti tra i due partiti. Quando ritornai alla Camera nel 2006 (grazie al Nuovo Psi) ci trovammo, per un periodo, entrambi all’opposizione del governo Prodi. E mi fece subito impressione la lucidità e anche la moderazione mostrate da Fini quando a più riprese egli ebbe modo di prendere la parola sul rapprto con l’esecutivo. Notai che quando parlavano, con accenti ben diversi, spesso al limite del provocatorio, alcuni suoi colleghi di partito, Fini si allontanava dal gruppo e storceva spesso la testa. Avevo l’impressione che tra lui e gli altri ci fosse ormai una barriera. Capita spesso ai leader di avere in odio il loro partito. E’ capitato anche  a Craxi, a Occhetto, per citare casi più remoti. Dopo un intervento sulla fiducia al governo, nel 2006, frutto di considerazioni sintetiche, ma incisive e responsabili, mi avvicinai e gli strinsi la mano aggiungendo: “Sono tornato alla Camera dopo 12 anni”. E lui di sobbalzo: “Non hai perso niente”. Niente era il periodo berlusconiano e bipolare del sistema politico italiano che pure aveva rimesso in gioco l’ex Msi e poi An? Rimasi stupito. Oggi so che l’evoluzione di Fini non è eplosa in una notte di mezza estate. Nè solo a partire dalla presa di posizione sul referendum attorno alla fecondazione assistita. Ma è il risultato di un lungo periodo di gestazione. Mentre tanto si parla di caso-Fini e di casa-Fini e così poco invece della sua posizione politica, credo sia giusto ricordare questo.