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La relazione di Del Bue al convegno del Psi sul tricolore del 3 aprile

3 Aprile 2011 1.051 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Il Psi è il solo partito che quest’anno, in occasione del 150esimo anniversario dell’unità d’Italia, dopo aver celebrato l’avvenimento a Roma con la bella festa di Piazza Navona, su invito del Centro Prampolini, si presenta qui, nella storica e suggestiva sala ove il tricolore fu creato il 7 gennaio del 1797, per un omaggio non formale alla bandiera. La bandiera bianca-rossa e verde, che venne proposta al congresso della Repubblica Cispadana del gennaio del 1797 e adottata come vessillo ufficiale, seguì la rivoluzione che sbocciò, en attendant Napoleone liberatore, nelle città di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara. La rivolta di Reggio Emilia era iniziata nell’agosto del 1796 prendendo piede addirittura un litigio su un cespo d’insalata, dopo gli insulti che in piazza della verdura un soldato del duca aveva rivolto a un’ortolana. E l’ortolana, certa Rosa Manganelli, divenne l’eroina del sommovimento che si estese a tutta la città. Venne alzato l’albero della libertà e proclamata dal locale senato la Repubblica reggiana, che dopo pochi giorni confluì in quella Cispadana. Il bianco e il rosso della bandiera vennero ereditati dal vessillo francese, allora simbolo di libertà, ma si aggiunse il verde al posto del blù, non certo ipotizzando una repubblica padana che mai ci sarà. Desidero innanzitutto porgere il saluto a tutti i partecipanti da parte dei socialisti reggiani, che in questa sala hanno sviluppato iniziative e battaglie memorabili. A cominciare da quella che per la prima volta portò a Reggio Emilia un sindaco socialista, nella persona di Alberto Borciani, nel dicembre del 1899. In questa sala, che divenne sede del Consiglio comunale, i socialisti reggiani hanno avuto modo di esporre le migliori personalità della loro storia, a cominciare da quel Camillo Prampolini che a partire dall’ultimo anno dell’Ottocento e fino agli venti del Novecento vi rappresentò la tradizione pragmatica ed evangelica del socialismo riformista. E creò, assieme ai suoi tanti ed eccellenti collaboratori, quell’isola felice di cui parlò tutta Italia. Tanto che il “fare come a Reggio” valeva per i riformisti italiani quel che dovette valere poi per i comunisti “il fare come in Russia”.  Con la differenza che il modello riformista non sarà poi chiamato a rispondere del suo fallimento e a doversi scrollare di dosso i calcinacci del muro di Berlino. Vi fu un tempo però in cui anche il socialismo riformista venne posto sotto processo: l’avanzata del fascismo, il suo consolidamento, la fascistizzazione dell’Europa, la guerra di Spagna, la resistenza al nazifascismo in Italia fecero sorgere nuovi miti e orientarono nuovi indirizzi politici, oltretutto rilanciati, anche se con forme e ritualità diverse, dalle contestazioni giovanili degli anni sessanta e settanta, che sembravano dar ragione a quanti nel 1921 se ne andarono a Livorno e a quanti poi al nuovo partito si accostarono negli anni seguenti. E infine il post Tangentopoli, con il socialismo riformista italiano ridotto al rango di imputato non solo per i suoi errori, ma anche per le sue ragioni. Il riformismo fu per decenni una tendenza minoritaria nel nostro Paese, spesso ridotta al lumicino e spesso perfino minoritaria nello stesso Psi. Fa piacere che oggi, a tanti di distanza, invece, anche coloro, e cito il caso di Fausto Bertinotti per citarne uno autorevole, che al riformismo non si sono mai decisamente accostati, attribuiscano meriti e ragioni a coloro che dal socialismo democratico e riformista non si distanziarono mai. E a Turati, Treves, Matteotti, Prampolini, Carlo Rosselli, è stato ridato l’onore delle armi e la ragione della storia. Non abbiamo mai avuto, come ora, così tanti riconoscimenti per i nostri meriti e tanto pochi consensi elettorali. Il riformismo prese decisamente piede agli inizi del Novecento e poi, nel dopoguerra, fu componente avversa ai massimalismi e ai rivoluzionarismi che non caso vorranno espungere dai comuni la bandiera tricolore per issarvi quella rossa (e quanto anche questo gesto simbolico avesse ferito una parte di italiani regalandola al sorgente fascismo è assai noto e documentato), e divenne poi socialismo democratico contro quello autoritario. Ma prima del riformismo il socialismo italiano fu direttamente collegato al mito risorgimentale. E non credo sia un fatto singolare. Di questo parlerà poi lo storico Mirko Carrattieri, presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Reggio Emilia. Mi limito qui ad alcune preliminari osservazioni. E’ impossibile parlare del socialismo italiano senza parlare del Risorgimento. Anzi si può dire che in Italia il socialismo nacque dal Risorgimento, più che non dalle teorie marxiste. E soprattutto si sviluppò all’ombra del culto di due grandi miti risorgimentali: Mazzini e Garibaldi. Senza il mistico isolamento e il continuo, incessante incitamento alla rivolta e alla insurrezione, perfino all’attentato, ma anche alla organizzazione operaia, del grande italiano rifugiatosi a Londra e senza il culto del generale invincibile e popolare che combatteva per l’Italia e per tutti i popoli oppressi, il socialismo italiano non avrebbe avuto i caratteri che si ritrovò. E in particolare quel rapporto originale tra patriottismo ed eguaglianza che lo animò a tal punto da renderlo permeabile anche ad altre dottrine e comportamenti durante tutti i conflitti che metteranno in discussione l’unità e l’espansione della nazione e in particolare dinnanzi a quello che sorgerà a fronte della prima guerra mondiale al cospetto della quale si sgretolò in mezza Europa, per poi risorgere con prevalenti caratteri massimalisti e filo bolscevichi in Italia dopo la rivoluzione sovietica del 1917. Benedetto Croce, parlando del marxismo italiano, disse che si trattava di un fenomeno impuro, perché i protagonisti erano uomini “che avevano cominciato da repubblicani, democratici, liberali e che tali si mantennero nel loro fondo”. A quale purismo socialista si riferisse il filosofo napoletano è facile intuirlo. Il socialismo scientifico, e in particolare la teoria della lotta di classe, rimasero a lungo sconosciuti in Italia anche anni dopo che erano state elaborate e diffuse. Il patriottismo risorgimentale era l’origine a cui si abbinava una forte esigenza di giustizia sociale. I primi protagonisti provenivano dalle infatuazioni, e alcuni anche dalle lotte vive, del Risorgimento italiano, che erano già, almeno in parte, lotte per la democrazia e la giustizia sociale. A questo proposito si è sviluppato proprio in questi nostri tempi un confronto sul tema dell’unità d’Italia con accenti revisionistici con in testa storici e politici di diversa provenienza. Eppure quasi da nessuna parte si è avuta la preoccupazione di distinguere le diverse componenti che hanno solcato il Risorgimento italiano. E’evidente che vi era la corrente puramente nazionale, e subalterna agli interessi di casa Savoia che poi s’affermò portando all’unità prima monca, senza Roma e le Venezie, poi senza popolo. Con Garibaldi che si rifugiò a Caprera e Mazzini ancora esiliato in patria a morto a Pisa con nome inglese. Credo però che senza la genialità e la spregiudicatezza di Cavour e la sua alleanza coi francesi, sarebbe stato assai più difficile arrivare all’indipendenza e questo deve essere storicamente riconosciuto. Ma vi era anche una corrente popolare, progressista che univa la conquista dell’indipendenza a quella dell’emancipazione sociale e della democrazia. E a questa seconda tendenza si rifacevano i tanti precursori dell’idea socialista e internazionalista che presero le armi e combatterono anche da questa città coi Mille di Garibaldi e poi a Mentana e poi nelle Venezie e poi per Roma e poi Francia con l’esercito dei Vosgi comandato da Garibaldi, quello che volle rispondere all’appello dei francesi: “Ce que reste de moi disposez”. L’esercito garibaldino di una guerra che poi sfociò nella Comune di Parigi del 1871, bagnata dal sangue dei rivoluzionari. E molti di loro combatterono anche in Grecia e in Spagna a difesa del popolo con un ideale internazionalista che era forte e avvincente e copriva l’umanità tutta e non solo il nostro paese. I primi socialisti internazionalisti erano dunque anche uomini d’azione. Spesso si trasformavano in uomini di guerra, e raramente avevano una famiglia e una casa stabile dove vivere una vita di routine. Ammaliati dalla lotta per l’ideale vivranno una vita da esuli come Andrea Costa, cha passò dall’anarchismo al socialismo nel 1879 e divenne, nel 1882, il primo deputato socialista italiano. E generalmente si manterranno con la solidarietà di qualche generoso come Carlo Cafiero che per Bakunin spese tutto il suo ricco patrimonio finendo poi i suoi giorni in manicomio, ma anche con il giornalismo e la scrittura di libri. Si può dire fossero ad un tempo soldati, giornalisti, poeti. Naturalmente non tutti coloro che si ispiravano a questi valori divennero socialisti. Ma tutti i socialisti che poi si professeranno tali partirono dalle infatuazioni risorgimentali e dal culto di Mazzini e Garibaldi, che poi aderì, contrariamente a Mazzini, agli ideali della Comune, dopo aver aderito, come Mazzini, alla prima Internazionale di Londra del 1864. Tuttavia solo alcuni patrioti, in primis Giuseppe Ferrari e Carlo Pisacane, trattarono il socialismo in modo esplicito come l’obiettivo di una rivoluzione sociale che non considerava necessario il passaggio dal dispotismo al dominio della borghesia. Mazzini era considerato il sommo eroe intellettuale del Risorgimento e Garibaldi una sorta di Dio vendicatore, anche dei poveri e dei diseredati. Bakunin parlerà del mito di un certo Garibaldoff di cui s’era impadronito anche il popolo russo. Il sol dell’avvenire di Garibaldi non si discostava nella sostanza da quello dei primi socialisti. Così sia Mazzini che Garibaldi saranno costantemente citati e anche venerati dalla prima pubblicistica socialista. Il primo numero de “Lo scamiciato, voce del popolo” (che si impegna a uscire “possibilmente ogni domenica”) fondato a Reggio Emilia dal giovane Camillo Prampolini nel 1882 è dedicato nel fondo ad un “frammento di programma”. E non vi è accenno a Marx e alle sue teorie, ma solo all’Internazionale dei lavoratori e a Garibaldi. Anche dopo la sconfessione, da parte di Mazzini, della Comune di Parigi del 1871 e il suo conseguente contrasto con Garibaldi, resta forte l’intreccio di entrambi. E in tanti non si rassegnarono al contrasto. Il mirandolese Celso Ceretti, mazziniano e garibaldino, volle addirittura convocare, nel 1872, un convegno a Mirandola per superare quel conflitto che iniziava a prendere forma anche in periferia. Collocando Mirandola al centro del mondo. L’incontro degli ideali risorgimentali, repubblicani, anarchici e socialisti è una costante degli anni che separano l’unità d’Italia dalla fondazione del Partito dei lavoratori italiani, e cioè fino al 1892. Naturalmente si trattava di ideali ancora piuttosto confusi, di programmi d’azione che non dividevano anarchici e socialisti con assoluta nettezza. Resta il fatto che il generale Giuseppe Garibaldi volle in particolare riferirsi esplicitamente al socialismo, non solo attraverso l’adesione alla prima internazionale alla quale Bakunin non aderì, ma in una lettera inviata al suo caro Celso Ceretti. La pubblicistica socialista, d’altronde, almeno fino agli anni venti, non si dimenticò di Garibaldi. Ne scrisse a lungo Prampolini, ma ne scrisse anche Pietro Nenni, nel centenario dell’unità d’Italia, con una pubblicazione edita nel 1961. Famosa è la sensibilità di Nenni, che da repubblicano volle partire volontario per la prima guerra mondiale, per la difesa dell’indipendenza nazionale e per la libertà contro l’impero austroungarico, per la quale perirono nelle Argonne due nipoti di Garibaldi, figli di Ricciotti, che nel 1914 con un’armata garibaldina s’erano schierati a difesa della Francia prima ancora che l’Italia decidesse l’entrata in guerra. A Garibaldi, nonostante l’esaltazione dei miti risorgimentali avvenuta durante il ventennio fascista, i partiti di sinistra vollero intestare lista del Fronte popolare del 1948 e a mio giudizio quella non fu certo una intestazione felice. Al congresso di Palermo del 1981 Bettino Craxi, gran cultore di Garibaldi e detentore di un vero e proprio museo garibaldino a casa sua, per la prima volta, dopo decenni in cui i riferimenti erano diventati ben altri, volle citare il generale come fonte di ispirazione socialista nella sua relazione congressuale, mentre risuonava la bella canzone di De Gregori “Viva l’Italia”. E da lì partirono varie celebrazioni che il segretario del Psi volle svolgere in diverse realtà per ricordare Garibaldi e gli eroi risorgimentali. Ricordo quella di Quarto, di Marsala e di Caprera, per citarne tre riuscitissime. Ma ricordo anche i tanti garibaldini e patrioti che Craxi volle commemorare in diverse città italiane, penso a Ugo Bassi a Bologna, ma anche a Cesare Battisti a Trento, che per l’Italia morì durante il primo conflitto bellico. Qualcuno storceva il naso, qualcun altro ironizzava su quella che pareva più una passione personale imposta al partito che non una nuova fonte di riferimento politico. E invece quel socialismo tricolore s’affermò e ancora una volta il Psi dimostrò così di arrivare prima di altri, prima della sinistra. Anche oggi forse, ma no sta a noi dirlo, arriviamo prima di altri, qui a celebrare il tricolore e l’unità d’Italia. Da socialisti e da italiani. Un partito può vivere senza una storia? Oggi si, anzi oggi un partito con una storia fatica a vivere. Ma noi riteniamo che non sarà così sempre e per questo continuiamo la nostra lotta di resistenza, anche se ridotti all’osso, ma tutt’altro che morti. E come Garibaldi in fondo anche noi potremmo dire agli italiani “Ce que reste de nous disposez”. In fondo non abbiamo mai avvertito particolari malesseri a cantare tutti in coro “Fratelli d’Italia” che un ragazzo di vent’anni volle comporre come poesia prima di essere ammazzato a Roma per la difesa della Repubblica. Noi abbiamo sempre sentito un brivido per quel coro e quelle note, forse perché eravamo così come siamo convinti che proprio da quel grande sommovimento democratico di indipendenza e di libertà nasce non solo l’origine del socialismo italiano, ma uno dei motivi forti della nostra identità presente, che non si cancella con un colpo di spugna o con l’avvento di un nuovo sistema politico senza storia, senza anima e io credo senza futuro. Buon lavoro compagni e che il tricolore ci porti fortuna.

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