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Cina, America, Europa e socialismo oggi

Se solo qualche anno fa qualcuno avesse ipotizzato che un giorno la Cina avrebbe rimproverato gli Usa sul debito, e in qualche modo anche ordinato di intervenire per attenuarlo, lo avrebbero preso per pazzo. E invece questo è avvenuto. La Cina, e lo si sapeva, ha in larga parte finanziato il debito americano che ha consentito agli Stati uniti di vivere il suo relativo benessere almeno fino alla prima crisi finanziaria. Ora, dopo il declassamento americano, decretato dalla famosa agenzia Standar & Poor’s, i cinesi è naturale si sentano anch’essi preoccupati e in dovere di intervenire per tutelare i loro investimenti. Questo determina addirittura un’inevitabile intromissione della Cina nella politica economica americana e quell’invito si configura come una condizione per continuare a investire in America, condizione che il governo statunitense non potrà non tenere nel debito conto. La Cina oggi non è solo entrata prepotentemente nel mercato mondiale (com’è noto attraverso quell’accordo per il commercio mondiale, Wto, che è stato più volte contestato dallo stesso ministro Tremonti), ma è entrata a piedi pari dentro le economie occidentali, in particolare in quella statunitense ed è oggi in condizione di orientarne gli sviluppi. Non è una sorpresa, si tratta di uno degli effetti della globalizzazione, ma è la prima volta che la globalizzazione, come del resto era logicamente inevitabile, si trasferisce così pesantemente sul piano politico. Nell’articolo domenicale su Repubblica Eugenio Scalfari analizza le cause della crisi americana e di quella europea e si chiede:”Se l’America ha il raffreddore, si diceva un tempo, l’Europa ha la polmonite, ma se la polmonite ce l’ha l’America che cosa può accadere qui?”. Scalfari giustamente si lamenta delle carenze, degli errori di valutazione, perfino delle contraddizioni ad horas del governo italiano (quel prevedere il pareggio di bilancio prima fissandolo al 2014 e poi improvvisamente al 2013, il chè comporterebbe una manovra da otto miliardi anzi che tre quest’anno, di venti miliardi di euro già per l’anno prossimo e di venti per il 2013). E constata che il governo italiano è ormai stato commissariato da Berlino e Parigi tramite Baroso e Trichet, che gli indicano, anzi pretendono, le necessarie correzioni di rotta alle manovre, per giustificare la situazione e poi correrle in aiuto. Ma siamo alla prassi, non all’eccezione e questo Scalfari non lo dice. La Cina pretende che gli Usa compiano scelte di risanamento, l’Europa pretende che l’Italia formuli proposte che siano in linea con gli obiettivi di ritorno dal debito. Tanto che ormai pare certa l’introduzione in Costituzione del bilancio in pareggio. Proposta avanzata peraltro da un qualificato membro dell’opposizione, il senatore Nicola Rossi e poi fatta propria dal Pd e dall’Udc. Cogliamo gli elementi politici di queste osservazioni e di queste proposte. Certo la crisi americana è dovuta alla recessione, alla caduta di domanda interna che si è poi trasferita sull’Europa e ha posto i mercati in condizione di richiedere garanzie sul debito. Ma anche queste considerazioni accertano che non esistono più governi indipendenti, in grado di fare una politica economica e finanziaria, essendo evidenti i vincoli e i condizionamenti di carattere internazionale. In particolare l’Europa ha da un lato la necessità di compiere scelte a una sola voce (vedasi le condizioni imposte al governo greco per attivare il soccorso europeo, soccorso che si è ripetuto anche per Irlanda e Portogallo) e dall’altro non dispone di un’autorità unica per la politica economica e finanziaria. Che non sia naturalmente la Banca europea, cioè Trichet oggi e Draghi domani. La politica europea commissariata alla Banca europea si configura come il massimo di subordinazione dei governi alle autorità monetarie. E questo non riguarda solo l’Europa ma anche l’America, che non rischia di dovere dar retta solo alla Cina ma anche alla banche, che peraltro sono all’origine della prima crisi, quella dovuta ai cosiddetti prestiti facili. Il potere finanziario che determina una crisi economica, non solo finanziaria, che si riversa sulla politica è questa oggi la situazione nella quale viviamo. Del resto in linea con il processo di unificazione europea, prima monetario e poi, eventualmente (e anche oggi molto eventualmente) politico. Naturalmente se un’agenzia di rating declassa l’America mentre le altre due (Moody’s e Fitch ratings) invece no, nasce un grande interrogativo legato in qualche modo al già citato rapporto tra economia e politica. Ambienti legati al Partito democratico americano attaccano Standar & Poor’s accusandola di essere subalterna ai disegni dei repubblicani che vogliono scalzare Obama. Il premio nobel 2003 per l’economia Robert Engle accusa in generale il ruolo giocato dalle agenzia di rating che a suo giudizio ”si sono assunte un ruolo di supplenza: sono loro adesso a informare gli investitori sulla reale validità di un titolo e sull’affidabilità del paese che lo esprime. Questo per l’inadempienza delle classi politiche su entrambi i lati dell’Oceano”. Il mondo schiavo dunque di nuovi poteri non democratici, non eletti da nessuno, non rappresentativi nemmeno dei governi, più importanti addirittura della presidenza degli Stati uniti, anzi in condizione di metterla in crisi, e dello stesso G8? Se vi aggiungiamo che, probabilmente intrecciata con essi, viaggia la speculazione finanziaria che può aggredire singoli paesi e portarli alla bancarotta, manifestandosi come moderno strumento di veri e propri colpi di stato, come ha evidenziato Rino Formica, allora dobbiamo proprio riflettere sugli argini di difesa, che non possono essere soltanto quelli della giusta e inevitabile lotta contro l’indebitamento. Ovunque volgiamo lo sguardo emerge in tutta la sua ampiezza la crisi della politica e la necessità di rilanciarla come unica arma di difesa della democrazia. Il mondo viaggia ormai seguendo altri meccanismi che appaiono inevitabili e ingovernabili. Basta che un’agenzia di rating schiacci un bottone (e noi non conosciamo neppure i nomi di costoro) e interi paesi rischiano la crisi, il collasso, o il default. Basta che una frase di un capo di governo venga mal proferita o male interpretata e i mercati si mettono in azione. Un annuncio può valere miliardi di euro. La finanza, gli strumenti che la regolano, e la comunicazione sono, assieme alla magistratura, moderni poteri assoluti. La politica deve lasciare il passo a loro? Non può intervenire per regolamentarli? Non può evitare di perdere ogni potere deliberativo? Penso che alla base di tutto, oggi, il socialismo democratico, riformista, liberale, debba porsi questo grande problema. Se Obama è concepito in larga parte dell’opinione pubblica americana come un leader commissariato e la stessa definizione la si dà (sono gli obamiani italiani) di Berlusconi, ciò vuol dire che a fronte di questi giganteschi problemi sono ormai cadute le tradizionali differenze tra destra e sinistra. Se Zapatero e Papanderu sono oggi nella condizione di dovere accettare le pretese di Parigi e Berlino esattamente come il governo italiano, allora quali differenze di politica economica sapranno far valere? Di più. Se l’Italia è chiamata al pareggio di bilancio nel 2013 e se in quell’anno la sinistra vincerà le elezioni, quale manovra saprà ideare per far quadrare i conti, visto che la manovra la si dovrà oltretutto decidere prima? E se, com’è giusto e opportuno, le forze oggi all’opposizione concorderanno la manovra con la maggioranza, allora che senso ha ancora il bipolarismo italiano? Non vale la pena puntare per i prossimi anni a un governo di ampie intese, di unità nazionale? O la sinistra, dopo che l’Italia avrà concertato la manovra con la Banca centrale europea e con Parigi e Berlino, pensa di proporne un altra? Oggi qualsiasi sfida della politica, di questa politica, dove conta solo l’immagine e la forma (non la sostanza), dove si votano i governi e i capi di stato in base all’emozione che ti recano (se son giovani, se son donne, se sono ricchi, se sono bianchi, se sono neri) e non in base al convincimento sulla capacità di risoluzione dei problemi qualsiasi sfida sarebbe perdente. In Italia lo stesso concetto di casta che si applica ai politici non lo si applica ai dirigenti di banca, ai magistrati, agli investitori di mercato, ai grandi dirigenti d’azienda, ai proprietari di giornali e televisioni. E interi pezzi di sinistra sono impegnati a mettere sotto processo non già i veri poteri ma i vecchi poteri. E questo, se si vuole, soprattutto in Italia, ma non solo in Italia. La politica è troppo debole per sfidare con probabilità di vittoria questi nuovi invisibili poteri assoluti. Compito di un moderno socialismo è quello di accettare di far piazza pulita di molti convincimenti del passato e di sapere che la grande parte di questi ultimi deve essere ancora individuata. La libertà e la giustizia sociale e civile sono valori sempre attuali, ma oggi libertà e giustizia sono da coniugare coi grandi dilemmi planetari. In fondo diventa attuale il vecchio sogno di Dante Alighieri, di un governo del mondo che il poeta ipotizzava in una monarchia illuminata (oggi diremmo in una democrazia progressiva). Del socialismo resta lo slancio internazionalista, il bisogno di proiettare la libertà e la giustizia fuori dai confini nazionali e resta anche la necessità che lo stato sia presente e non affidi il futuro alla spontaneità del mercato. Viviamo una fase di transizione cha va affrontata con lo spirito di transizione. Oggi quel che conta non sono le vecchie differenze e i formali e controproducenti bipolarismi che sono ritagliati sul passato. Conta saper affrontare la situazione attuale con lo spirito della responsabilità di chi sa che gran parte di ciò che dovrebbe oggi decidere è nelle mani altrui. Ma anche con il coraggio dell’esploratore che non rinuncia a cercare il mondo nuovo, ben sapendo che la nuova terra è affidata a valori ai quali anche in Italia, sia pure in pochi, non abbiamo saputo rinunciare.