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Ancora sul liberalsocialismo

Molti amici e compagni sostengono che l’unica strategia da perseguire per noi socialisti italiani sia quella della costruziore del partito socialista europeo anche nel nostro Paese. Dunque occorrerebbe semplicemente che il Pd si sfrangiasse e che la parte ex comunista si decidesse a diventare socialista europea, lasciando la parte ex democristiana al suo naturale destino popolare. Non nego che questa eventualità, che vedo tuttavia remota, sarebbe da salutare con soddisfazione e che potrebbe aprire nuove prospettive anche per noi. Se la mancanza di questa scelta fosse però l’unica ragione della nostra sussistenza, allora mi viene spontanea una domanda. Perchè, quando il Pds, e poi ancor più i Ds, erano iscritti al Pse e i loro dirigenti si trovavano anche al vertice dell’Internazionale socialista, noi abbiamo difeso l’esistenza di autonome aggregazioni di socialisti italiani? E’ stato un errore? Proprio in quel periodo (dal 1994 al 2006) lo Sdi si trovò prima alleato con Dini, poi con Segni, poi con Pecoraro Scanio, infine con la lista Uniti nell’Ulivo e con la Rosa nel pugno e il Nuovo Psi, nato solo nel 2001, si trovò alleato con Forza Italia e nel 2006 presentò una lista con la Dc di Rotondi.  E’ stata una stagione sbagliata, solo frutto di sbandamenti politici, quando invece la via maestra avrebbe dovuto essere, appunto, quella dell’adesione al partito del socialismo europeo in Italia, e cioè al Pds -Ds? O si trattava del semplice presentimento che per gli ex comunisti era solo una scelta transitoria, svanita poi con la fondazione del Partito democratico nel 2007? Perchè, però, quando Rutelli ruppe l’alleanza ulivista, dopo le Europee del 2004, Boselli si scagliò con durezza contro di lui e la Margherita, che intendevano correre da soli nel 2006? Avrebbe dovuto festeggiare quell’avvenimento come un momento di chiarezza politica. O già prevedeva la conversione, non già di Rutelli al socialismo europeo, ma sua al rutellismo? No, non può essere solo l’adesione al socialismo europeo, se non vogliamo considerare un insieme di errori e di sbandamenti la storia dei socialisti italiani dal 1994 al 2006, la ragione del nostro esistere. Ce ne sono credo almeno tre, e perfino più profonde. La prima e principale è l’eredità del Psi di Craxi. Non di Craxi come persona e nemmenno tanto come leader, ma di quel Psi che negli anni ottanta ha lanciato le revisioni e le modernizzazioni ad una sinistra sorda e ancora ferma al passato. Di quel Psi non tutto è recuberabile, ma alcune intuizioni, a mio avviso, sono ancora attuali. Penso al riformismo istituzionale, alla contestazione dell’egualitarismo in nome dell’equità, all’alleanza tra meriti e bisogni. E vengo al secondo motivo, che è appunto la questione del liberalsocialismo. Non si tratta di una mistificazione del concetto di socialismo e neppure del semplice e pur affascinante recupero del socialismo liberale di Rosselli, Rossi, Capitini. Si tratta di un modo di concepire la sinistra che è opposto a quello ancor oggi ufficiale. Cioè di preporre e non di posporre la questione della libertà. Bobbio scrisse che il paradigma identitario della sinistra era il concetto di giustizia e della destra quello della libertà. Ecco, noi capovolgemmo quel criterio di individuazione. E ponemmo al primo posto di una moderna sinistra proprio la libertà. Così, ad esempio, sulle questioni del rapporto tra magistratura e cittadini siamo stati, assai prima di Tangentopoli, protagonisti di un referendum e abbiamo contestato i poteri assoluti e dominanti, e non è un caso che nella breve legislatura 2006-2008 abbiamo presentato insieme, socialisti di diversa collocazione assieme ai radicali, una proposta di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, ritenendo che i veri conflitti d’interesse in Italia fossero due e non uno solo: quello di Berlusconi, che deteneva potere politico e potere dell’informazione, e quello dei magistrati, che si erano (anzi si sono) ormai inseriti pienamente nella lotta politica abusando del loro potere. D’altronde, non è un caso che su questo tema, come sui temi generali dei diritti civili e della laicità dello Stato ci troviamo più vicini anche oggi alle posizioni dei radicali e dei liberali più che che non a quelle della cosiddetta sinistra ufficiale. Infine, sul lavoro, da Marco Biagi a Pietro Ichino, è emersa una impostazione tesa a liquidare vecchie e consunte certezze, in nome di una nuova e meno ideologica visione dei rapporti sindacali. Una sorta di flex security, in un Paese tormentato dalla disoccupazione giovanile, dal precariato e soprattutto dalla bassa crescita, divenuta ormai decrescita. La nostra impostazione antidogmatica ci spinge, io credo, a guardare alle esperienze migliori dell’Europa e non alle peggiori dell’Italia. A uscire da slogan e dalle tante “giù le mani” che generalmente nascondono il vuoto delle idee. Possiamo discutere di questo? Senza scomuniche, ma anche senza superficialità?