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Eppure parlano ancora di filosofia (ultimo capitolo)

E oggi? Oggi che siamo in piena globalizzazione, che viviamo i problemi della crisi finanziaria di tutto l’occidente, oggi che pare che l’ovest, e ancor più l’Europa, abbia perso la sua egemonia economica e anche culturale, oggi che la tecnologia ha cambiato il modo di vivere, si può ancora parlare di filosofia? Oggi che i cinesi, dopo Mao e Ciu, hanno scoperto il valore del profitto e hanno fondato il capital-comunismo, regime che più oppressivo non si può, ma che induce al benessere dei cittadini, facendo sorgere il dubbio che la libertà occidentale non sia poi così redditizia, al punto che è proprio la Cina a pagare larga parte del debito degli Stati Uniti (questa è la vera rivoluzione del duemila), oggi che i conflitti nel mondo paiono sempre più di ordine religioso, e soprattutto quello tra l’Islam estremo e la democrazia, e mettono in discussione non solo equilibri geo-politici, ma anche culture, tradizioni e valori acquisiti in centinaia di anni di storia, oggi che abbiamo vissuto non solo l’11 settembre, ma anche quattro guerre in vent’anni (Kuwait, ex Jugoslavia, Iraq e Afghanistan), oggi possiamo ancora pensare al pensiero? Al pensiero nel mondo di Internet, delle scoperte sempre più imprevedibili in campo informatico, telematico, tecnologico? Facciamo un passo indietro. La filosofia nel novecento non rappresenta una tendenza, che so, come quella dell’illuminismo nel settecento e del romanticismo nell’ottocento. Il novecento è un secolo difforme. Un secolo breve, ma turbolento. Che ha scomposto la musica, scomposto la democrazia, scomposto la filosofia. E’ stato caratterizzato da grandiose scoperte scientifiche e naturalmente la filosofia ha dovuto fare i conti innanzitutto con la scienza. Ma anche con i mutamenti del pensiero e dello stesso cervello umano, sconfinando così spesso nella biologia. Ha prodotto una serie di tendenze filosofiche, principalmente basate sull’analisi della realtà umana, quali, per citarne soltanto alcune, lo spiritualismo, la fenomenologia, l’esistenzialismo, il post marxismo, lo psicologismo, il pedagogismo, il realismo, la filosofia analitica, il neopositivismo, lo strutturalismo e altro ancora. Si sono altamente sviluppate la sociologia, l’antropologia, la linguistica, la semiotica. Che mal di testa, caro Talete, che ti ponevi un solo elementare problema ed eri anche il primo a farlo. Impossibile sintetizzarle tutte, arrivare a un minimo comun denominatore. Da ultimo, si è sviluppato un intenso dibattito, soprattutto negli Usa, sul neodarwinismo e il creazionismo, come nozione chiave dello sviluppo. Scimmie o adamiedeve? Ognuno dice la sua, come Pierre Hadot, filosofo francese tra i più creativi, che sostiene che la filosofia dev’essere utile all’uomo, tutt’il resto son cavolate. E che quel conta, alla stregua del comportamento degli stoici, è vivere la propria filosofia. Quindi quel che bisogna fare sono “esercizi spirituali”, altro che libri e discorsi incomprensibili. Prima, tra gli altri, e per quel che ha saputo dare allo sviluppo del pensiero e dell’approccio tra pensiero e scienza, c’era stato Bertrand Russell, che con George Edward Moore aveva innescato la sua rivoluzione contro l’idealismo della filosofia anglosassone d’inizio novecento. Puntava sulla logica e sulla matematica, ma Russell sarà anche scienziato (il mondo è costituito da piccole particelle invisibili), liberale, antisovietico e pacifista, contro la prima guerra mondiale e poi, nel secondo dopoguerra, contro la guerra in Vietnam e la proliferazione nucleare. Era di famiglia agiata e aristocratica e venne allevato dai nonni (perse mamma e papà in età infantile), amava ragionare e sorridere, preferiva la matematica e la filosofia e anche le belle donne (ne sposò quattro senza essere mai neppure particolarmente fedele). Con Sartre fondò il tribunale che prese il suo nome contro i crimini di guerra. Morì a 97 anni (era nato nel 1872) nel 1970, quando l’Italia sconfisse la Germania per 4 a 3 ai mondiali del Messico, Merckx vinceva Giro e Tour e Battisti cantava “Emozioni”. Uno dei suoi migliori allievi fu Ludwig Wittgenstein che col suo “Tractatus logico-philosophicus” voleva stabilire cos’era e cosa non era la filosofia. E ci riuscì a modo suo puntando tutto sul linguaggio. Costui era nato a Vienna nel 1889, figlio di un ricco e aristocratico industriale. Nella Vienna di Freud, di Musil, di Schoenberg e della sua dodecafonia, nella stessa Vienna dove Popper inizierà la sua dissacrante avventura. Anche Wittgenstein si nutrì di cultura. Ma contrariamente a Russell combattè nella prima guerra mondiale nell’esercito austroungarico e venne anche fatto prigioniero in Italia. Ma a causa del suo contorto modo di ragionare che si esprime nella sua filosofia del linguaggio, credo l’abbiano subito lasciato libero. Il Piave non poteva più aspettare a mormorare. E lo straniero non doveva passare. Se un soldato austriaco discettava sul linguaggio mentre arrivavano le bombe a mano e i colpi di cannone, significava per gli italiani la vittoria a porta di mano. Può essere che su di lui abbiano influito le sue disgrazie familiari (due fratelli sucidi e un terzo, pianista, con la sfiga di perdere un braccio in guerra), ma la sua ambizione era di scrivere un Tractatus logico-philosophicus (uscirà nel 1921 con la prefazione di Russell) per definire la filosofia e siccome la filosofia si definisce col linguaggio che è l’unico strumento di rappresentazione della realtà, di spiegare ciò che è esprimibile e ciò che non lo è. Come Cartesio arrivò a declamare: “Cogito ergo sum”, così Wittgenstein si spinse temerariamente ad affermare: “Di ciò di cui non si può parlare occorre tacere”. E nessuno osò obiettare nulla.  Le nostre parole possono solo rappresentare fatti, secondo lui, e il resto sono parole inutili. Poi si ricredette a partire dal 1930. Si può anche parlare in tanti modi. Il linguaggio non è unico. Ce sono tanti  (in effetti quello di Di Pietro, così contorto, sbraitato e gesticolato, è molto diverso da quello del filosofo Massimo Cacciari, così come il roco e progressivo incedere verso la sua dissoluzione del verbo di Bossi non assomiglia a quello di Sgarbi) ed è utile ricondurli a uno. I linguaggi divengono giochi. Occasioni, opportunità, a volte manifestazioni di impotenza. Chissà, grida di dolore, di gioia, di euforia. Parole al vento. “Parole parole, parole”, cantava Wittgenstein con certa Mina (da leggersi Maina), una delle prime amanti di Russell, che aveva aperto un piano bar a Cambridge. E poi il nostro mica aveva assistito alla trasformazione del linguaggio ai tempi della moderna telefonia tascabile e dei computer. Dove “tvb” significa “ti voglio bene” e “tvmb” “ti voglio molto bene” e “vfc” è un insulto cifrato. Dove il linguaggio diventa sigla, sintesi di pensiero. E tutto si velocizza e si trasmette in un attimo. Dove alle lettere (con tanto di proposizioni complesse e di congiuntivi adeguati, di aggettivazioni qualificate) subentrano le mail impersonali che si scrivono a gruppi e su Facebook anche a quattromila persone insieme. In fondo per Wittgenstein esiste solo l’Io nella storia. E qui c’è in lui una sorta di ripiegamento decadente verso la solitudine e la difesa della coscienza individuale. In fondo la filosofia altro non è che un baluardo per difendersi dal mondo esterno, per difendere la propria coscienza dalle storie di tutti i giorni. Per difendere l’inesprimibile dall’esprimibile. Altro che matematica e logica, esiste un Wittgenstein due che alla fine si contrappone al Wittgenstein uno e a Russell e al suo filone razionale. E dice il contrario di quel che aveva scritto nel Tractatus. Già allora certo Churchill aveva sancito che solo uno stupido non cambia mai idea. Anche Alfred Whitehead di una decina d’anni più vecchio di Russell aveva collaborato con lui e Moore al rinnovamento logico-epistemologico maturato a Cambridge nei primi decenni del novecento. Whitehead aveva un debole per Platone, più lo leggeva e più lo amava, pensava che la filosofia fosse solo un’insieme di note a margine del filosofo greco e tutto il resto fuffa. Aveva collaborato con Russell in “Principi mathematica”. Poi s’era dedicato alle scienze naturali e alla teoria di Einstein. Ma oltre agli inglesi (Wittgenstein era viennese, ma dimorò per larga parte della sua vita in Inghilterra) anche l’Austria mantenne, fino all’invasione tedesca, una catena di filosofi che si ammaestravano nel circolo di Vienna ad educare alla scienza e alla filosofia scientifica, mentre in Italia si sviluppava con Benedetto Croce e Giovanni Gentile un idealismo nostrano (la rivista crociana “La critica” è del 1903) come reazione al positivismo, e Gentile diverrà poi, contrariamente a Croce, sostenitore del fascismo e ministro dell’istruzione (a lui si deve l’importante riforma della scuola media superiore). In Francia si fonda lo strutturalismo. Con Jacques Lacan (Parigi 1901, ivi 1981), lo psicanalista francese più conosciuto, l’inconscio acquisisce non solo una sua autonomia, ma anche un suo linguaggio autonomo. Così quel che conta, a suo giudizio, non è tanto cosa dice un paziente, ma soprattutto come lo dice e con quali parole. Il culto del linguaggio lo spinge a ritenere che la parola generi il pensiero. E non viceversa. Una volta un giornalista, per scusarsi della sua eccessiva enfasi contro un lettore, scrisse: “Le dita mi sono scivolate via più veloci del cervello”. Le dita sulla macchina da scrivere, cioè le parole. Le parole a volte precedono il pensiero. Solo per i pazzi? No, perché per Lacan i pazzi non esistono, ma esistono solo individui che vivono dall’altra parte della ragione. Un suo allievo, Michel Foucault (Parigi 1926, ivi 1984) arriverà nella sua “Teoria della follia”, a definire i pazzi come persone particolarmente sensibili che risentono più degli altri dei guasti della società, un post marxismo condito con Freud, che influenzerà Basaglia, Jervis e i basagliani della 180 in Italia. E Gilles Deleuze (Parigi 1925, ivi 1995) produrrà poi uno sforzo sistemico del suo strutturalismo. Dove si riprende la tesi secondo la quale non è l’uomo a cercare i significati per mezzo del linguaggio, ma è il linguaggio che si esprime attraverso l’uomo. L’individuo risulta un burattino. Un attore che parla in play back. Si pensava che per Marx l’uomo fosse un po’ troppo condizionato dall’economia, come riteneva Popper? No, con Deleuze l’uomo risulta condizionato da tutto, e libero in niente. Certo in primis dal linguaggio, poi anche dall’economia, dai riti e dalla storia, dalla famiglia e dalla domestica che ha avuto da bambino. E anche dalle bustine delle figurine Panini. Deleuze si spinge anche a definire le diverse strutture che condizionano l’omuncolo prodotto. Un piccolo e sconcio personaggio che non merita alcuna comprensione. Forse solo la pietà che si riserva agli ergastolani. In Germania il filosofo più prestigioso e stimolante è stato certamente Martin Heiddegger (Messckrich 1889, Friburgo 1971), allevato in una famiglia cattolica, ma che nel 1919 si professò non cattolico, ma solo cristiano. Dottore in matematica a Friburgo, assistente di Husserl, poi si distacca dalla sua fenomenologia. Nel 1927 scrive “L’essere e il tempo” che lo avvicina all’esistenzialismo (Sartre pubblica poco dopo il suo “L’essere e il nulla”). L’esistenzialismo di Heidegger s’imbatte però con la tragica esistenza del nazismo. Nel 1933 è rettore a Friburgo e il 3 novembre esalta Hitler in una lettera agli studenti, che gli verrà più volte rimproverata. L’anno dopo però si dimette dal rettorato e si allontana dalla politica. Resta tuttavia insegnante fino al 1942, mentre la seconda guerra era già iniziata e Hitler cominciava a risentire dei colpi della sua folle prepotenza. Anche per questo, nell’immediato dopoguerra, viene sospeso dall’insegnamento. Resta in ammollo fino al 1949. Nel 1947 scrive “La dottrina platonica delle verità” con una lettera sull’umanismo, nel 1949 scrive “Il cammino verso il linguaggio”. Si lega alla filosofa ebrea Hannah Arendt, non credo solo per espiazione della sua debolezza verso il nazismo. In un’intervista televisiva del 1969 attacca la tecnica e l’uomo che ne diventa schiavo. Il suo pensiero fondamentale è rivolto all’interrogativo su cosa sia l’essere. Ma siccome la domanda è dell’uomo, l’essere e l’esistenza in qualche modo in lui coincidono. L’uomo che non è solo presenza, ma è progetto di essere è l’esserci. Nasce e muore senza averlo deciso. E per lui la morte non è un intralcio dello Spirito, come per Hegel, anzi è il limite in cui si consuma l’esistenza. La morte è identità di vita. Senza la morte la nostra vita non sarebbe. Non condivide l’indifferenza stoica nei confronti della morte. La morte va vissuta come parte indissolubile e forgiante la vita. Anzi di più. Per ritrovare autenticità dell’esistenza è necessario fare della morte il cardine della vita. Così l’essere si dà nel tempo, mentre Panta rei, avrebbe detto Eraclito. E alla fine c’è un limite, una barriera dentro la quale inizio e fine si toccano. Vivere la morte per gioire della vita? Questo forse no. Soprattutto se pensiamo al periodo in cui Heiddeger visse. Troppa morte, anche atroce, poca vita serena. E l’esserci dell’uomo era ricerca di sopravvivenza. Di difficile sopravvivenza. Negli anni più recenti, mentre il nostro Gianni Vattimo teorizzava la necessità del “pensiero debole” da contrapporre a quello autoritario e totale, quale l’hegelismo, il marxismo, la psicanalisi, la fenomenologia, lo strutturalismo e poi si trasformò in dogmatico comunista e dipietrista, rafforzando il suo, in America si sviluppa un confronto acceso sulla teoria dell’evoluzione e del cosiddetto creazionismo del disegno intelligente. Venata di toni religiosi e atei, la materia dell’origine dell’uomo e dello sviluppo della specie, sulla quale Darwin diede la sua risposta, continuano ad appassionare e a dividere. Con la nascita del cosiddetto “disegno intelligente” da parte del biochimico americano Michel Behe (Altoona 1952), che si basa sulla complessità irriducibile dello sviluppo, si apre la strada a una interpretazione che non nega la discendenza comune della specie (Behe è meno integralista del suo collega William Bembski, nato a Chicago nel 1960, cattolicissimo e negatore invece della possibilità che l’uomo derivi da un animale e più propenso a credere ad Adamo ed Eva e alla mela peccaminosa), ma ritiene di collegarla a una sorta di progetto stile designer moderno (la mano del disegnatore) che orchestra, seleziona, dirige il tutto. Un neo provvidenzialismo, insomma. Dall’altra parte gli evoluzionisti capeggiati da personalità quali Richard Dawkins, decisamente ateo, inglese, che invece contesta a Darwin la teoria della specie e la sostituisce con quella del gene. Il gene egoista, che sarebbe alla base delle trasformazione. Ognuno tiene al gene suo e guai a chi glielo tocca. L’egoismo del gene è pari solo a quello del tesoriere Lusi dell’ex Margherita che per riprodursi aveva bisogno di venti milioni di euro. Forse però non era per la sola difesa del gene suo, ma anche per quello della sua famiglia. E così, mentre incombe la crisi finanziaria su un occidente in crisi e mentre Internet ci abbraccia quotidianamente almeno quanto i salotti di Vespa coi suoi omicidi ripetuti a ciclo continuo ci interroghiamo ancora, nonostante i progressi della scienza e della biologia (ma il cervello quale poteri può arrivare ad esprimere?) e sconfiniamo a discettare su una vita che si riacchiappa dopo essere stati per qualche tempo in un’altra tra oasi di verde e di luce, riemergono anche oggi i problemi insoluti di sempre sull’uomo, la sua origine, il suo sviluppo, il fine delle vita. Forse mai come oggi esiste il bisogno di parlare dell’uomo, dell’uomo contemporaneo alle prese coi problemi di un’esistenza complessa, che si fa sempre più indecifrabile e dove la conoscenza, nonostante gli strumenti sempre più raffinati forniti dalle moderne tecnologie, appare riservata a pochissimi. Sempre più parcellizzata e specialistica. Sempre più oligarchica. E dove anche la politica deve cedere il primato alle leggi delle scienze moderne e dell’evoluzione delle economie. In tanti si pongono domande. Chissà che tra un po’ non rinasca anche Talete chiedendosi perché nessuno, dopo migliaia di anni, abbia ancora dato risposta alla sua.