- L'Occhio Del Bue - http://www.locchiodelbue.it -

Duecento anni di Verdi

Il 10 ottobre di duecento anni fa nasceva a Le Roncole, frazione del comune di Busseto, nello stato di Parma, Giuseppe Verdi. Sarebbe diventato il genio musicale capace di accompagnare le generazioni future per due secoli. Amava la musica fin da bambino, l’ascoltava da viandante e in chiesa. Volle un pianoforte, e a quindici anni una sua rudimentale composizione fu eseguita nel teatro del paese in luogo di una sinfonia del celeberrimo Rossini. Il suo benefattore e pigmalione fu Antonio Barezzi, un commerciante benestante che amava la musica e vedeva in Giuseppe un musicista di talento. Gli pagò gli studi a Milano, privati, perché al Conservatorio il giovane Verdi non fu ammesso. Come Einstein fu bocciato in matematica, così Verdi venne ritenuto inadatto alla musica. Mai fidarsi dei professori. Barezzi divenne anche suo suocero perché Giuseppe ne sposò la figlia Margherita dalla quale ebbe due figli. La sua prima opera fu “Oberto conte di San Bonifacio”, che ebbe esito discreto, ma non esaltante. La seconda fu “Un giorno di regno”, un’opera buffa che mal si conciliò con le tragedia vissute in quegli anni e fu un vero fiasco. Dal 1838 al 1840 Giuseppe perse le due figliolette e la moglie. Tanto inumano dolore provocò acuta depressione. Voleva smettere. Poi, d’incanto, l’incontro con Bartolomeo Merelli, l’impresario della Scala, nella neve d’un freddo inverno, a Milano, e la sua proposta di musicare un libretto di Temistocle Solera, Nabucodonosor. Fu trionfo. Dai salotti risorgimentali alle botteghe meneghine tutti accennavano ai motivi dell’opera, la canticchiavano, l’ascoltavano, la confrontavano. Coi soldi di Nabucco Verdi volle comprare il palazzo di Barezzi e si trasferì a Busseto. Iniziò anche la sua relazione col soprano Giuseppina Strepponi, la sua prima Abigaille, che divenne la sua inseparabile compagna, la sua consigliera, la sua musa ispiratrice. Da Nabucco, il cui trionfo si duplicò in misura forse anche maggiore con “I lombardi alla prima crociata” , e poi in particolare a partire da Ernani, che segnò l’inizio della collaborazione di Piave, Verdi cominciò a scrivere senza sosta. Ebbero inizio i suoi anni cosiddetti “di galera”, in cui partorì opere non tutte conosciute, da “I due Foscari” a “Giovanna d’Arco” a “La battaglia di Legnano” a “I masnadieri” a “Alzira” fino a “Luisa Miller” e al magnifico “Macbeth”, la sua prima scoperta di Shakespeare. Verdi affinò il suo stile in cui la musica diventava sempre più pregnate soverchiando i recitativi e con la trilogia che scrisse in due anni (Rigoletto, Traviata e Trovatore), dal 1851 al 1853, divenne l’autore più amato e apprezzato. Quello che seppe meglio incarnare i suoi tempi, segnati da tensioni nazionali, da moti di popolo, da forti impulsi ideali. L’Ottocento italiano aveva bisogno d’un cantore popolare, forte, sanguigno. Lo aveva trovato. La vicenda musicale di Verdi s’imbatté in quella di Wagner e molti gli preferirono il tedesco che ritenevano più moderno e avanzato. Verdi affrontò il rivale. Si recò nella Bologna wagneriana per Lohengrin, in treno, prese appunti dalla seconda fila di un palco. Ne ricavò perplessità e diffidenza. Ma Verdi volle e seppe rinnovare stesso. Lo aveva già fatto con Rigoletto, il primo dramma in musica, come Wagner definiva i suoi. Un’opera totale. Eppure ben saldata col suo humus fortemente padano, quello d’un Hugo condito col vento del Po, d’un “Le roi s’amuse” diventato duca di Mantova. Mai una assurda censura fu così provvida convertendo il dramma nel suo ambiente più familiare. Gli anni gli scivolarono via, da “Un ballo in maschera”, in cui commedia e tragedia s’uniscono e combinano, a “La forza del destino”, una sorta di feuilletton che non amo, ma che svetta nella maestosa sinfonia e la cui prima fu a San Pietroburgo, nelle imponenti nevi affrontate con le slitte tirate dai cani, alla elezione a parlamentare del primo Regno d’Italia con sede a Torino. Come Garibaldi, anche Verdi divenne l’eroe nazionale per antonomasia e i due furono rappresentati da quasi identica iconografia. Dopo il Don Carlos, che venne eseguito a Parigi, e Aida che segnò l’inaugurazione del Canale di Suez e venne rappresentata al Cairo, ove Verdi, che si invaghì della sua donna, il soprano Teresa Stolz, mandò non a caso a dirigerla il maestro Mariani, l’incontro con Arrigo Boito, la rivisitazione del Simon Boccanegra, che era stato composto nel 1857 e i due ultimi capolavori verdiani: Otello e Falstaff. Ancora Shekaspeare. E un’intimità nuova unita a un’introspezione dei personaggi scandita da note sempre più raffinate, nell’una, e da una ironia colta e mai banale, in cui la musica accompagna ogni parola, ogni gesto, ogni movimento, nell’altra. Come nel meraviglioso Requiem in cui Verdi supera Mozart non solo per potenza, ma anche per intuizione mistica, lui non religioso. Sposo le parole di Riccardo Muti secondo il quale a duecento anni dalla nascita Giuseppe Verdi è il musicista del futuro.