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Tosca, la sua modernità e la sua inadeguatezza a Reggio Emilia

18 Marzo 2014 2.170 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Non si può pensare a Tosca, che aprì il secolo ventesimo, senza andare al ricordo del pessimo giudizio di Malher, che era presente alla prima e non si diede ragione dell’opera a suo avviso colma di chiese, di preti e di campane. Il grande sinfonista tedesco, che amava più Leoncavallo e Giordano che il genio di Torre del Lago, doveva essere fuori di senno. Puccini apre con Tosca anche il nuovo secolo musicale. E l’autore già di Manon e di Bohème con Tosca compie un ulteriore passo avanti che lo porterà di li a qualche anno prima alle nuove e intriganti assonanze orientali di Butterflay e poi al Trittico e a Fanciulla. Con un’orchestrazione che inizia con una dissonanza e che sviluppa un tessuto ricco di originali armonie, Puccini si propone non già come il più famoso melodista, ricordato soprattutto per le sue celebri arie, ma come il più colto e moderno armonista. Il vero anticipatore delle nuove generazioni musicali, anche se l’unico che ha saputo modernizzare mantenendosi ancorato alla tradizione. In lui ben si condensano Verdi e Schoenberg. Continuare Verdi, come in fondo fecero Ponchielli, ma anche Loncavallo e Giordano, non aveva molto senso. Meglio innovare. Senza paura di scadere nel sinfonismo, come lo aveva pregato di evitare proprio il cigno di Busseto. L’orchestra è la vera protagonista di Tosca, più ancora della protagonista, la bella e gelosissima cantante Floria Tosca. E l’orchestra è stata giustamente protagonista anche nelle due serate di Tosca al nostro Municipale Vallli. Ogni volta che si mette in scena quest’opera si discute sulle scelte del direttore d’orchestra, sui suoi tempi, sui suoi toni e timbri. Già con Gusella nell’innovativa Tosca del 1971 si polemizzò sull’eccesso di sonorità dell’orchestra e anche sul carattere di Tosca che per troppi anni è stata proposta solo come eroina melodica, come se tutta la sua parte altro non sia che la romanza “Vissi d’arte” e anche la sua interpretazione non dovesse dunque scadere nè nell’eccesso verista né in quello modernista. Eppure sia l’orchestra sia Tosca affrontano uno spartito che é segnato dai colori ora più accesi, ora più raffinati. Parte del duetto d’amore del primo atto e tutto il dialogo con Scarpia che si allarga sul secondo, sono attestati sui toni acuti e anche urlati della gelosia, dell’ira, della vendetta, perfino del sangue. Dunque condivido l’interpretazione del giovane maestro Jader Bignamini e del soprano Ainhoa Arteta, che hanno voluto marcare e a ragione i tratti musicali e vocali dell’opera. Discutibile, molto discutibile, tutto il resto. Mario Cavaradossi è stato interpretato dal tenore Massimiliano Pisapia, allievo del grande Franco Corelli e per anni valutato come una grande promessa della lirica italiana. Pisapia è dotato di un notevole e robusto materiale, ma lo utilizza male. Non lo plasma, non lo modula, non lo propone nel diversi modi richiesti dalla parte. In “Recondita armonia il suo ingresso spaventa. Bisognerebbe iniziarlo a mezza voce, o almeno in tono soffice, vellutato, e invece Pisapia lo urla. Non conosce il fraseggio in falsetto che impone E lucevan le stelle, e mette tutto sul petto. Appoggia tutte le note lì. Il resto non gli viene. Ma Corelli questo gli ha insegnato? Che dire di Angelo Veccia, che pure è stato salutato com un ottimo Macbeth a Bologna pochi mesi fa. Non si sente. Vien voglia di urlargli “Scarpia dove sei”. La sua prima frase “Un tal baccano in Chiesa” sembra una richiesta di silenzio giusto per permettergli di farsi sentire. Mormora. È Scarpia, che è tutto perversione. Non può sussurrare. Non è il romantico eroe Cavaradossi. E’ il potente, violento, sadico Scarpia. Deve incunearsi nei meandri della psicologia di Tosca con bramosia mista a perversione. Gode nel far soffrire. Un mostro, non un ospite della Casa di riposo Giuseppe Verdi. Possibile che abbia perso la voce. Ma qualche ragione avrà pur avuto il Comunale bolognese che aveva preferito Stefano Secco come Cavaradossi e Raymond Aceto come Scarpia. Perché a Reggio bisogna accontentarsi del secondo cast? Io avrei detto di no. Ma ormai questo è quel che passa il convento. E quando non si conoscono i cantanti, e non si viaggia per i teatri ad ascoltarli, bisogna accontentarsi delle indicazioni delle agenzie. Ma adesso anche gli ex teatri di tradizione e oggi fondazioni teatrali dispongono di direttori artistici. Cosa ci stanno a fare?

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