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Perché sul Jobs act sto con Renzi

Leggo vari commenti sulle intenzioni legislative legate al cosiddetto Jobs act, del quale si parla oggi sulla stampa. Leggo senza sorprendermi delle reazioni dei sindacati e in particolare della Cgil della nemica Camusso e della Fiom dell’amico Landini. Leggo anche prese di posizione di qualche nostro compagno che meritano precisazioni. Cominciamo dall’inizio.

Primo punto. Lo Statuto dei laboratori, articolo 18 naturalmente compreso, nasce su iniziativa socialista e in particolare del ministro del lavoro dell’epoca Giacomo Brodolini. È una conquista importante di civiltà e di umanità. Brodolini muore l’anno prima di vedere approvata la sua legge, che il Parlamento adotta nel 1970, due anni dopo l’esplosione della contestazione giovanile e l’anno dopo il cosiddetto autunno caldo. Votano a favore Psi, Dc, Pri e Psdi, i partiti di governo. Si astengono Pci e Pli. Chiaro? Dunque coloro che provengono dalla tradizione comunista sanno oggi di difendere uno statuto che il Pci non votò. Uno dei tanti errori che poi sono stati ammessi? Diciamolo, direbbe D’Alema…

Secondo punto. Lo statuto dei lavoratori ha dunque quarantaquattro anni di vita. Non c’è una costituzione, un trattato, un ordinamento che possa esser giudicato intoccabile dopo tanto tempo. Soprattutto se inserito sul versante economico-sociale, dove le trasformazioni nell’ultimo trentennio sono state poderose, travolgenti. Alcune anche imprevedibili. Chi si rifiuta di discutere e di affrontare con spirito libero la revisione della Costituzione è un conservatore. Chi ad ogni proposta di adeguamento e di aggiornamento alza lo scudo del “Giù le mani” è o cieco o in malafede. Questo naturalmente vale ancora di più sugli ordinamenti che regolano il versante economico.

Terzo punto. Se ci occupiamo delle differenze tra il 1970 e oggi dovremmo scrivere un libro. Cito le più evidenti. E le riassumo in tre parole: terziarizzazione, finanziarizzazione, globalizzazione. Tre parole di cui nel 1970 non si conosceva neppure il significato. Sono cresciute le piccole aziende (in Italia sono il 95 per cento del totale), il capitale finanziario ha sempre più sovvertito le regole classiche del capitalismo industriale, il mercato è diventato globale e la competizione risente della diversa situazione nazionale sul costo della produzione. Anche il lavoro si è conseguentemente trasformato.

Quarto punto. Oggi pensare che un giovane si trovi un lavoro per tutta la vita è impensabile. La tutela di quel determinato posto di lavoro si trasforma sempre di più nella necessità di trovare un lavoro e di tutelare la persona affinché lavori. A me per questo è sempre sembrato che il piano Ichino, che altro non è che una moderna giurisdizione del lavoro di stampo europeo, bene si adatti alle nuove esigenze, Su questo avanzo solo dubbi attinenti ai costi pubblici dell’operazione. Che non sono chiari, ma non sono certo poco elevati. Anche l’idea di dare più spazio alla contrattazione aziendale, e meno a quella nazionale, la trovo convincente. Un’azienda del nord che produce utili può dividerli coi lavoratori, una del sud che fatica a esistere può adottare salari più bassi.

Quinto punto. Non capisco come si possa definire equo un mercato del lavoro che gira a due velocità. Per i lavoratori nelle aziende con più di 15 dipendenti scatta lo statuto dei lavoratori, anche se leggermente modificato dalla Fornero, per gli altri, che sono la stragrande maggioranza, non scatta praticamente nulla. In particolare i precari di tutele non ne hanno alcuna. Anche la Cassa integrazione valevole solo per le grandi aziende. Poi si è introdotta la Cassa integrazione in deroga più estesa, ma a discrezione, come una sorta di ammortizzatore sociale, oggi praticamente senza finanziamenti. Vi pare giusto?

Sesto punto. Se non capisco male il Jobs act, su cui il Parlamento sta lavorando sulla delega alla luce di alcuni fondamentali orientamenti, che oggi è stata approvata in commisssione al Senato, punta a un contratto unico a tutele crescenti. Questo dovrebbe valere per tutti i nuovi assunti, sia nelle grandi sia nelle piccole aziende. Ma dopo il triennio previsto che succede? E qui chi grida all’eresia vorrebbe che tornasse, ma solo per i dipendenti delle grandi aziende, l’articolo 18, ricostituendo così il mercato duale, perché esso vale solo per i dipendenti delle aziende con più di 15 dipendenti. Penso però che si dovrebbe meglio comprendere quali tutele il lavoratore dovrebbe avere dopo i tre anni. Penso che si dovrà trovare una soluzione del tipo di quella avanzata da Ichino, e cioè un sostegno al lavoratore licenziato, un periodo di formazione, poi un’Agenzia, sulla scorta dell’esperienza tedesca, che proponga un’altra occupazione che non si può rifiutare pena il venire meno del sostegno economico, ma con le perplessità già esposte sulle risorse richieste.

Settimo punto. L’Italia è l’unico paese europeo con questo diritto del lavoro. Gli altri o non l’hanno mai avuto o l’hanno cambiato negli ultimi anni. Il modello tedesco, il cosiddetto Piano Hartz, è stato voluto dal cancelliere socialdemocratico Schroeder, non dalla Merkel. A proposito di cogestione, cioè della composizione di consigli aziendali con la presenza dei lavoratori, credo che esistano le condizioni per sperimentarla anche nel nostro Paese, sapendo che una corresponsabilità dei lavoratori equivale a una minore vocazione conflittuale del sindacato. L’Italia è l’unico paese che non cresce. Il mercato del lavoro è sempre quello. Ci sarà qualche rapporto tra le due anomalie? I riformisti si devono preoccupare o no dell’aumento della disoccupazione? Della prima tutela. Del primo diritto costituzionale, che è quello del lavoro. L’Italia è oggi una Repubblica fondata sulla disoccupazione giovanile. Cosa c’è di più ingiusto?

Queste le mie valutazioni, da socialista, da riformista, da europeista. Vorrei che tutti quelli che urlano al totem violato, al tabù infranto, al valore dei principi e delle tradizioni, affrontassero laicamente questa discussione,