- L'Occhio Del Bue - http://www.locchiodelbue.it -

Socialismo riformista, socialismo liberale e comunismo stalinista

I rapporti tra Carlo Rosselli e i riformisti del Psi non furono sempre cordiali. Ancor meno lo furono quelli tra Piero Gobetti e i socialisti. Vengo ai primi. Carlo Rosselli era di famiglia ebrea, agiata, fratello di Nello e di Aldo, che partì volontario per la guerra e morì sui monti della Carnia. Di Carlo, che conobbe Salvemini all’Universita di Firenze, dove la famiglia si era presto trasferita da Roma, si può dire che acquisì i valori fondamentali dei diversi incontri che gli si prospettarono nelle città ove si trasferì. A  Firenze si avvicina alla cultura socialista eretica di Salvemini, collaborando a Critica sociale quando si trasferisce a Milano per la seconda laurea, in economia, diventa anche allievo di Turati col quale mantiene un rapporto filiale (è lui con Sandro Pertini che organizza la fuga di Turati da Savona verso Nizza, e di lì a Parigi, del vecchio leader nel 1926), a Milano fonda poi con Nenni “Quarto Stato”, a Genova con Ernesto Rossi di tendenza liberal democratica crea il “Non mollare”, collabora attivamente con Piero Gobetti a Torino. Diventa quindi, naturalmente, un socialista (era iscritto al PSU riformista fondato da Turati, Treves, Matteotti dopo la sciagurata espulsione dell’ottobre 1922 dal PSI a maggioranza massimalista). Il suo distacco dalla famiglia socialista tradizionale avviene in due tempi, prima con la pubblicazione del suo libro “Il socialismo liberale”, che scrive nell’isola di Lipari, dov’era confinato e dalla quale fuggì assieme a Emilio Lussu e Fausto Nitti nel 1929 e che venne pubblicato in Francia nel 1930. Non è un caso che sia stato proprio uno dei socialisti riformisti più famosi, Claudio Treves a prendere clamorosamente le distanze da quel testo escludendo che il marxismo fosse così illiberale come veniva descritto. La verità è che i socialisti riformisti erano sostanzialmente dei marxisti moderati o più semplicemente degli engheliani ultima maniera, mentre Rosselli era decisamente fuoriuscito dal socialismo tradizionale e aveva abbinato la sua vocazione alla giustizia sociale ad un forte afflato liberale. Qui stava il suo naturale intreccio con Piero Gobetti. Potremmo affermare che i due superavano ad un tempo la dottrina socialista e quella liberare classiche. Erano precursori di un futuro che si realizzerà. Fuori dai vecchi schemi e dalle vecchie chiese. La seconda novità di Rosselli e anche questa tipica dell’elaborazione gobettiana, riguarda l’analisi del fascismo. Secondo i riformisti si trattava di una parentesi, quelli di Reggio Emilia, a cominciare da Zibordi e Prampolini, lo giudicavano un fuoco di paglia, una perversione, un malattia che sarebbe presto stata guarita. Ne avevano anticipato il pericolo contrariamente ai massimalisti e ai comunisti ai quali possono essere certamente attribuite parecchie responsabilità nella nascita del fenomeno. Ma non ne acquisivano il carattere fondante e financo popolare. Frutto di una guerra combattuta senza riconoscenza, di poteri economici traballanti e rimessi in piedi, del pericolo di una rivoluzione bolscevica sventata. Il debito in rapporto al Pil era, nel 1922, al 160 per cento, il più alto dall’unità ad oggi e verrà portato nel giro di pochi anni al 50 per cento. La disoccupazione quasi debellata, l’orario di lavoro portato a otto ore. Il valore del fascismo sul piano sociale fu capace di far dimenticare presto il vecchio sistema liberale. Restava il suo carattere oppressivo, illiberale. Se alcuni socialisti riformisti furono perfino attratti dal corporativismo e vollero incontrare Mussolini nella seconda metà degli anni trenta, dopo l’epopea dell’Africa orientale italiana, che fece addirittura convertire l’ex rivoluzonario, poi riformista, Arturo Labriola, Carlo Rosselli era sempre più ostinatamente convinto di promuovere azioni col suo nuovo movimento di Giustizia e libertà. Il tema democratico era d’altronde quello che Rosselli e Gobetti intuirono alla nascita del fascismo assieme al suo carattere duraturo che comportava la necessità di sconfiggerlo con l’organizzazione e con l’azione. Anche su Gobetti si concentrarono alcuni strali polemici dei socialisti riformisti. Ho rintracciato una dura polemica, che ho pubblicato nel libro della storia del Socialismo, tra Zibordi e Gobetti. Il primo era un socialista riformista, direttore de La Giustizia quotidiana, eletto deputato a partire dal 1914. Capeggiò i riformisti al congresso di Ancona nel 1914, quando Turati fu assente. Era un uomo di raffinata cultura, giornalista e scrittore. Il 9 giugno del 1925 Gobetti inviò una lettera a Zibordi per controbattere ad alcune osservazioni dello stesso Zibordi, contenute in suo precedente articolo pubblicato su La Giustizia. Gobetti volle criticare il Psu a muso duro, pur apprezzando la prosa carducciana di Zibordi, che di Carducci era stato allievo all’Università di Bologna. Zibordi rispose a sua volta: “Voi mancate del senso del comico. So lo aveste non avreste scritto, dopo il delitto Matteotti, che voi e lui vi intendeste subito d’istinto, come i soli veri antifascisti d’Italia… Questo è uno di quei casi in cui il vivo si fa la commemorazione a spese del morto, in cui è il morto che commemora il vivo”. Questa l’apologia di Gobetti, secondo Zibordi, scritta da lui medesimo con il pretesto di Matteotti: “Ci si intese subito. Anche lui antifascista, autentico”. Chiosa Zibordi: ” C’è n’erano solo due in Italia, Gobetti primo e Matteotti secondo”. Poi la polemica sull’assoluzione di un D’Aragona che secondo Gobetti avrebbe tradito se non ci fosse stato Matteotti (Mussolini cercava un sindacalista socialista da inserire nel suo primo governo dell’ottobre del 1922). La polemica alzava i suo toni e Zibordi la volle concludere applicando a se stesso quel senso del comico che aveva consigliato al suo giovane interlocutore: “Voi vi limitate a dire a chi vi dice brutto, “brutto te”. Cinquant’anni fa anch’io polemizzavo così”. Poco dopo Rivoluzione liberale, il 10 novembre, viene sospesa con decreto prefettizio e una settima prima anche La Giustizia era stata costretta a fare altrettanto, da vive, entrambe, e non da morte. I socialisti riformisti erano generalmente politici a tempo pieno. O meglio impiegati nel sistema riformista. Chi giornalisti, chi cooperatori, chi sindacalisti, chi funzionari di aziende municipalizzate, operai di consorzi e quant’altro il riformismo aveva saputo creare. Una volta distrutto o ereditato il sistema da parte del fascismo i socialisti riformisti dovevano cercarsi innanzitutto un lavoro. Per questo finirono per non combattere a viso aperto il fascismo. Aggiungiamo che erano anche non violenti di natura e di fede. Avevano lottato con lo strumento della propaganda verbale e scritta, rifiutato la guerra e la rivoluzione anche per convinzioni etiche. Gobetti morì presto e Rosselli si trasferì dopo la fuga da Lipari a Parigi. A Parigi c’era anche Turati e con Nenni seguì il percorso che porterà nel 1930 alla riunificazione del PSI, tra massimalisti e riformisti. Ma già era nata Giustizia e Libertà che aderì alla Concentrazione antifascista, unione di tutte le forze antifasciste non comuniste, che intendeva promuovere e coordinare dall’estero ogni possibile azione di lotta al fascismo in Italia. Nello stesso 1930 Rosselli pubblica, in francese, Socialisme liberal. Il libro è una critica appassionata del marxismo. È una sintesi creativa del revisionismo socialista democratico (tra gli altri Bernstein, Turati e Treves) e di quello libertario (Rossi, Salvemini). Ma contiene anche un attacco dirompente contro lo stalinismo della Terza internazionale, che con la formula del “socialfascismo” accomunava socialdemocrazia e fascismo. Non stupisce perciò che uno fra i più fedeli stalinisti, Palmiro Togliatti, definisca “Socialismo liberale” un “magro libello antisocialista” e Rosselli “un ideologo reazionario che nessuna cosa lega alla classe operaia”. D’altronde Togliatti, allora Ercoli nell’esecutivo del Conintern, dopo la morte di Filippo Turati aveva scritto su Stato operaio nell’aprile del 1932 un articolo di fuoco che non può essere dimenticato: “Nella persona e nell’attività di Filippo Turati si sommano tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo e, come un simbolo, anche la sua fine. L’insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l’insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero. Quel poco di marxismo contraffatto che si trova nei primi anni della Critica sociale non fu dovuto a lui. Dei vecchi capi riformisti egli fu il più lontano dal marxismo. Più ancora di Camillo Prampolini fu un retore sentimentale, tinto di scetticismo, e per questo, nelle apparenze, un ribelle. Le famose frasi lapidarie di Turati sono dei motti, delle banalità, delle cose senza senso alcuno. Organicamente egli era un controrivoluzionario, un nemico aperto della rivoluzione. Turati fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall’opportunismo. Serrati era unitario per uno sciocco sentimentalismo. Turati lo era per astuzia, per calcolo opportunista, allo scopo di potere continuare a penalizzate ogni azione dei rivoluzionari. L sua andata al Quirinale avviene con vent’anni di ritardo. La borghesia, per conto della quale egli aveva fatto il poliziotto, il crumiro e predicato viltà, non aveva più altro da dargli che il calcio dell’asino. Noi fummo e rimaniamo suoi acerrimi nemici, nemici di tutto ciò che il turatismo è stato, ha fatto, ha rappresentato”. Rosselli e Gobetti avevano saputo superare i confini tra socialismo e liberalismo, Togliatti e i comunisti stalinisti anche. Ma nell’odio e nella condanna di entrambi.