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Il Falstaff di Busseto convince anche se…

Svetta subito alta l’orchestra Cherubini, diretta dal maestro Pazkowski, ma Verdi non è Stravinsky, soffoca sotto il peso di una bacchetta rigida e invadente tutto il meraviglioso declamato che sorregge il dialogo tra sir John e i due servi Bardolfo e Pistola, e anche quello dell’onore sembra una scena da film muto. Poi la direzione si corregge e si mantiene più che dignitosa nel prosieguo dell’opera. Questo Falsfaff, coprodotto da Ravenna, Reggio Emilia, Ferrara, Piacenza, Lucca, aveva bisogno di rodaggio. Era dall’estate scorsa, quando debuttò nel Ravenna festival, che il capolavoro del Verdi ottuagenario non veniva ripreso. Dal furto denunciato dal dottor Cajus alla Giarrettiera, fino a quell’ultimo suo segno di fine ironia e saggio disincanto col quale ci lascia, Verdi è cesellatore di raffinatissimi segmenti musicali, accompagnato dal suggestivo testo di Arrigo Boito. Il Fastaff è opera, come ricorda Massimo Mila, dell’uomo Verdi profondamente mutato rispetto ai suoi primi anni. È il frutto più alto della sua maturità, grazie alla quale arriva a cambiare anche il suo modo di scrivere musica. Qui, salvo la parentesi amorosa di Fenton e Nannetta che attraversa l’opera veloce e insistente, regna la presa in giro, culminata nel suggestivo finale “Tutto nel mondo è burla”. Eppure la musica è ancora padrona del testo, lo accarezza, lo accompagna, lo descrive, perfino nei particolari, come nella lettura della spesa di Falstaff del primo atto o nella scansione delle ore dell’ultimo. Tutto nel mondo è burla, ma nel mondo di Verdi tutto è musica. Una musica che si rifugia nel declamato, nel quartetto, nell’ottetto, nella fuga. Non è certo il primo, Verdi, a sorreggere lo scherno divertito con una musica romantica, che ha l’effetto di rendere ancora più evidente e gustosa la beffa. Basti pensare a Rossini. Ma è il primo che nel secondo quadro, all’inizio e alla fine, rende così fresca e godibile la lettura di un passo di una lettera, quella spedita da Falstaff congiuntamente ad Alice e a Meg, “Ma il viso tuo su me risplenderà come una stella, come una stella nell’immensità”, che è frase volutamente banale e che diventa scherzo e promessa di vendetta. Il capolavoro verdiano è ben interpretato da Kiril Manolov nella parte di sir Jonh, anche se la sua voce più da basso che baritonale s’incaglia nelle frasi più allusive e sfuocate, con qualche problema di intonazione. Molto bene il Ford di Federico Longhi, assolutamente credibile l’Alice di Eleonora Buratto, meno gli altri. Ad esempio Nannetta, la giovane Damiana Nizzi, è davvero soave nel registro acuto, ma debolissima negli altri, come il Fenton di Matthias Stier che si mostra, al contrario, troppo pesante, col canto sempre di testa, anche nel declamato che ritorna, quel “bocca baciata non perde ventura” di stampo stilnovista. La regia e la scenografia di Cristina Mazzavilani Muti mi è parsa attenta all’evolversi della trama. Soprattutto all’intenzione originaria di Verdi di presentare il Falsaff a Sant’Agata dove viveva. Già Strehler aveva immaginato Falstaff nella terra di Verdi nell’edizione milanese dei primi anni ottanta. Un Falstaff padano che si immerge nei giochi, nelle ruberie, negli amori e negli scherzi di paese. Cristina Muti va oltre e immerge l’opera nei luoghi verdiani che vengono proiettati in scena, compresa la casa nativa di Verdi a Le Roncole e il teatro di Busseto. Un Falstaff che più verdiano non si può. E che rimanda a quel finale quando, dopo la vittoria, anzi il trionfo, delle allegri e vendicative comari di Shakespeare e alla presa d’atto della sconfitta di tutti gli uomini, il femminismo viene esaltato nella presa d’atto e nell’invito di Ford a festeggiare l’esito con un semplice invito a cena. Perché poi tanto tutto nel mondo è burla e siamo tutti gabbati, cari amici, anche voi del pubblico del Municipale Valli, proprio tutti gabbati… Verdi ci saluta così, con una godibile e fragorosa risata.