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La crisi del modello cooperativo

C’era una volta la cooperazione. Come una bella favola. Il primo cooperatore reggiano fu un professore di matematica che decise nel 1880 di fondare una cooperativa di consumo per “levar Reggio dagli stracci”. Aprì spacci in città, creò un ristorante popolare, comprò un mulino, un pastificio, un’azienda del vino. Voleva dimostrare che associando tutti i cittadini si sarebbe gradualmente sostituito anche il commercio borghese e addirittura la produzione capitalistica. Un sognatore. Tra poco uscirà su di lui, e sulla sua originale epopea, un mio libro dal titolo “Il primo cooperatore. Contardo Vinsani, il riformista utopistico” (Edizioni Interessicomuni). Il movimento cooperativo ebbe a Reggio la sua culla. Con Antonio Vergnannini toccò il suo fulcro. Nel 1904 Vergnanini teorizzò e praticò la cooperazione integrale, mentre in Comune i socialisti, dal 1900 al 1904, avevano municipalizzato farmacie, gas e luce elettrica, affissioni e traguanato, cacciando addirittura le suore dall’ospedale e il cappellano dal cimitero. E si apprestavano, dopo un referendum vinto, a municipalizzare anche il pane. Tanto che la conservatrice “L’Italia centrale” titolò sgomenta: “Siamo in rivoluzione”. La cooperazione era concepita come l’altra faccia rispetto alla resistenza. Insomma la compensazione, attraverso la dimensione della soluzione del bisogno, del momento della lotta per cambiare la società. Era il cambiamento subito, da collegare a quello più generale e di prospettiva. Era la scala riformista contrapposta al volo rivoluzionario. È passato più di un secolo ed è naturale che si siano raffreddate molte passioni. Il realismo di un sistema di aziende, questa la fin troppo prosaica definizione del mondo cooperativo già negli anni settanta-ottanta, ha fatto presa. Eppure anche in quegli anni si è continuato a ritenere la cooperazione uno strumento politico. Tanto che i suoi presidenti erano o comunisti o socialisti, con vice interscambiabili. Tanto che il suo personale era quasi tutto segnalato dai partiti. Tanto che nel vecchio sistema politico la cooperazione trovava la sua referenzialità. La principale delle virtù dei suoi dirigenti era proprio quella delle buone relazioni con il sistema dei partiti e con le pubbliche amministrazioni. D’altronde inutile negare che i maggiori finanziamenti ai partiti di sinistra arrivassero, era così anche ai tempi di Prampolini, proprio dal sistema cooperativo. Dopo Tangentopoli le coop entrano in una fase nuova, ma solo relativamente, perché cambiavano solo gli interlocutori, ma non i modi, vedasi in un caso le vicende di Mafia Capitale. Negli ultimi vent’anni sono usciti nuovi dirigenti, che forse non hanno neppure abbinato una delle due storiche qualità (la vecchia passione dei fondatori e la preparazione politica dei cooperatori degli anni settanta-ottanta unita a un certo fiuto contadino), ma hanno vissuto di rendita. Anche loro sono sostanzialmente usciti dalle stanze dei partiti, basta dare un’occhiata alle tessere dei presidenti, ma senza avere le qualità dei predecessori. Aggiungiamo certo la crisi. E qui non si può però negare che è nei momenti di crisi che vengono premiate creatività e intelligenza. Sono preoccupato per il default di un sistema che è in fondo quello reggiano ed emiliano. Aveva tenuto in passato anche di fronte a crisi profonde come quelle dei primi anni settanta, oggi sta sprofondando nel silenzio di tutti. E senza una ricetta per salvarlo e rilanciarlo. Nella più assoluta mancanza di analisi e di proposte. Manca un discorso sul futuro e restiamo muti a guardare come si guarda un burrone prima di finirci dentro.