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Che nozze di Figaro…

1 Febbraio 2016 2.847 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Ritorno a Mozart del teatro Municipale Valli di Reggio Emilia che produce, assieme al Regio di Parma, Le nozze di Figaro, dopo aver firmato un esemplare Flauto magico diretto da Claudio Abbado e poi un Così fan tutte, mentre due anni orsono é stata la volta di un discusso Don Giovanni con la regia di Vick, prodotto assieme al circuito lombardo. Un Don Giovanni alterato dalla tossicodipendenza. Le nozze di Figaro Mozart e Da Ponte la scrivono nel 1786, riprendendo il soggetto da Beaumarchais, che lo aveva concepito nove anni prima. Siamo, in fondo, a soli tre anni dalla Rivoluzione francese e il soggetto ben si attaglia a un evento che si sarebbe sviluppato, sia pur in altro paese, pochi anni dopo. E cioè il contrasto, sia pur per via amorosa, tra ceti sociali diversi. Da un lato il conte d’Almaviva con le sue pretese di “ius primae noctis” e il suo borioso predominio, dall’altro Figaro, la sua amata Susanna e il popolo dei contadini che diventano coro, nel finale d’atto. Che vincano gli ultimi e perdano i primi non dovette passare sott’occhio all’imperatore austriaco che probì l’opera nonostante Da Ponte vi avesse espunto tutti i richiami di carattere politico. Anche il ballo era stato proibito nell’usanza dell’epoca. Poi vi fu una clamorosa retromarcia, quando alla prova Mozart volle eseguirlo senza musica dinnanzi al sovrano che ordinò di reintrodurla immediatamente. Meglio un ballo che una rappresentazione di mimi, insomma. In fondo che il conte finisca sotto gli sberleffi di tutti, compresa la moglie, in quel finale d’opera che appare simile a quello del Falstaff, dove tutti perdonano tutti e se la ridono insieme, non doveva essere usuale in teatro. Tanto che a Vienna e Praga in quegli anni tutti cantavano e suonavano Figaro quasi fosse una nuova licenza, e nei teatri si dava solo Figaro, come Mozart ebbe modo di annotare con malcelata compiacenza. Vincono dunque i popolani contro la nobiltà, ma vincono, come nel Così fan tutte, clamorosamente anche le donne. Tentatrici, ammaliatrici, mica sante, ma dotate d’ingegno, di pronta intuizione, di fantasia, di malizia. Meraviglioso, visto che siamo a fine settecento. D’altronde l’amore del settecento si sposa spesso con lo scherzo. E’ vissuto senza i drammoni dell’Ottocento, che sfociano poi nella ossessione della gelosia e spesso nella tragedia. Qui, come commenta don Basilio, “le donne belle fan tutte così” e lo dice trovando due uomini nella camera di Susanna. Altro che menar scandalo. La regia di Martone, già sperimentata a Roma, non esalta, ma si mantiene fedele a una lettura tradizionale. Senza la spocchia di chi intende registicamente sempre reinventare. A volte, spesso, stravolgendo. Usando bene anche la platea come se questo contrasto fosse dentro di noi, anche oggi. Non c’è la carica esplosiva di un Ponnelle che le misure prese ad inizio opera le trasferisce al letto della camera degli sposi poi le commisura al corpo di Susanna. Con atteggiamento da sarto scrupoloso. D’effetto le immagini del coro che si presenta in scena come il Quarto stato, perché Le nozze sono anche un’opera corale, più del Così fan tutte e anche del Don Giovanni. L’ironia e la carica trasgressiva dell’opera si compendia anche di un rapporto tra parole e strumento musicale che spesso le scandisce, le commenta e le rimbalza dalla buca al palcoscenico. E viceversa, quasi in un gioco di suoni allusivi. Qualche pecca ha denunciato l’orchestra diretta da Beltrami, soprattutto nei fiati e nell’accordo non perfetto dei violini. O almeno così a me è parso. Ottimo il cast vocale ove spiccano le qualità interpretative e di emissione del Figaro di Orfila. Così come perfetta mi è parsa la contessa interpretata magistralmente da Iva Mei. Bene tutti gli altri, a cominciare dal solito De Candia, con leggere sfasature nel tessuto alto, così come di qualità anche scenica la Susanna della Giordano. Vere e proprie ovazioni da parte del pubblico. Se Figaro impegna solo una giornata per sposarsi, gli spettatori, molti giovani e non melomani abituali, si sono sorbiti tre ore e mezzo di musica di fine settecento con partecipata attenzione. Senza le melodie e le armonie così care ai palati verdian-pucciniani. E non sono poche.

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