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Tutta la verità, dati alla mano, sul governo Craxi

Francamente non sopporto più l’approssimazione dei dati, se non addirittura la loro falsificazione, quando si parla del governo Craxi e dell’apporto dell’esecutivo a presidenza socialista per risolvere i problemi economici e sociali italiani tra il 1983 e il 1987. Con il prezioso ausilio di Gennaro Acquaviva, che di Craxi fu fondamentale collaboratore a palazzo Chigi, ho potuto leggere un’ampia nota di Nicola Scalzini, all’epoca consulente economico di Craxi, e intendo diffonderne i contenuti. Scalzini compie un bilancio oggettivo del quadriennio del governo Craxi sottolineandone difficoltà, successi e anche problemi che rimasero aperti.

Partiamo dalla situazione che Craxi si trovò a fronteggiare nell’agosto del 1983, caratterizzata solo da elementi negativi: il Pil era tornato sotto a quello del 1980, il valore aggiunto dell’industria italiana era diminuito del 1,6%, l’occupazione era in calo da due anni, con una conseguente crescita della Cassa integrazione (il tasso di disoccupazione aveva sfondato il tetto del 10% e nell’ultima fase del 1983 toccherà il vertice dell’11,8%). Gli investimenti erano scesi del 5,3%, la pressione fiscale era aumentata di 2-3 punti, la spesa sociale era aumentata del 33% nel 1981 e del 14,5% nel 1982. Tutto questo mentre i grandi paesi stavano ripartendo. Dagli Stati uniti alla Germania al Giappone tutti avevano ricondotto l’inflazione alla fase precedente le due crisi petrolifere mentre da noi continuava ad aumentare e a metà 1983 era attestata sul 16%.

Il perverso meccanismo della scala mobile a punto unico fungeva da acceleratore dell’inflazione e da appiattimento retributivo. Così induceva a ulteriori aumenti per le qualifiche più alte, oltre che a nuovi accordi sui contratti. La finanza pubblica era fuori controllo. Il fabbisogno pubblico aveva segnato il record dal dopoguerra e si attestava al 16,9 del Pil. Parallelamente però l’industria italiana attraversava una fase di forte dinamismo, caratterizzato da ristrutturazioni, decentramenti, ricambio occupazionale che determinavano una crescita della produttività per addetto, ma anche un complessivo indebolimento occupazionale.

Il cosiddetto lodo Scotti portò, dopo un accordo governo-sindacati, a fissare l’obiettivo dell’inflazione al 13% per il 1983 e del 10 per il 1984. I sindacati accettarono anche talune correzioni alla scala mobile, mentre Craxi, già alla fiera del Levante del 1983, teorizzò la necessita di una politica dei redditi. Nel 1984 sia la spesa sia i saldi per interessi cominciavano per la prima volta a diminuire in percentuale di Pil. Nel contempo il governo Craxi lanciò con la Finanziaria di fine anno una strategia fondata su un pressione fiscale stabile e su una spesa corrente bloccata. Nel quadriennio la pressione fiscale rimase stabile, mentre la spesa non riuscirà a scendere di quota rispetto al Pil. Crescerà anch’essa con i tassi di Pil e non con quella dei prezzi come indicato dal governo. L’unica che scenderà sarà quella relativa all’attività finanziaria in relazione alla diminuzione degli oneri per l’industria pubblica che migliorerà i suoi conti.

La finanziaria 1984 modificò profondamente la spesa sociale. Si costruì la cosiddetta “Italia a fasce”, come la definì il ministro De Michelis con prestazioni gratuite per i ceti meno abbienti, ridotte per le fasce medie e a pagamento per quelle medio alte. Questa selezione veniva applicata anche agli assegni familiari, ai ticket sanitari, all’adeguamento delle pensioni. E anche la scala mobile sulle pensioni venne rimodulata per fasce di reddito, sopprimendo il punto unico. Questa finanziaria anticipava il decreto di San Valentino e poi l’accordo, conseguente alla vittoria referendaria, tra governo e sindacati sulle retribuzioni concordate.

L’esito del referendum del 1985 fu foriero di risultati economici davvero superiori anche alle più ottimistiche previsioni perché, oltre agli effetti pratici, ne provocò altri di carattere psicologico. Il governatore della Banca d’Italia Ciampi dirà: “Nel 1986 si sono concentrati i frutti di un’azione tenace e di tendenze positive. L’inflazione è stata piegata al 4,2 in dicembre, nel confronto con i principali paesi il differenziale inflazionistico, che all’inizio degli anni ottanta era di 9 punti, è adesso ridotto a 2. Il fabbisogno statale è stato contenuto entro i 110.000 miliardi, ma al netto degli interessi è sceso da 47.000 a 36.000 miliardi, la bilancia commerciale è migliorata di 18.000 miliardi e quella corrente è tornata in attivo per 6.000 miliardi”. Di più il costo del lavoro scende di 2,5 punti e i salari netti reali segnano forti incrementi per il calo dell’inflazione e della riduzione delle imposte sui redditi. Aumenta l’occupazione e si mantiene alto il ciclo degli investimenti.

Certo tutto questo è favorito da una congiuntura internazionale favorevole caratterizzata dalla diminuzione del dollaro e da quella delle materie prime. Anche la riforma dell’Irpef porta al recupero delle perdite sul salario lordo da parte delle aziende a favore dei lavoratori, che rinunciano ad aumenti salariali compensati da una loro minore tassazione. I minori costi energetici e del lavoro permettono alle imprese maggiori investimenti. Lo stato compensa il minore gettito Irpef con una fiscalizzazione dei ribassi dei prezzi dei combustibili. Tutto questo può aprire la porta anche ad una più incisiva azione per diminuire il disavanzo pubblico.

Invece a fine 1986 si apre la questione politica. La legge finanziaria del 1987 è ormai di carattere elettorale. La Dc e De Mita pensano al ritorno a palazzo Chigi, temono i successi del governo Craxi il cui partito nel giugno otterrà la percentuale più alta dal 1946. Dopo le elezioni, in un clima da “la guerra è finita” riprenderanno gli assalti alla Finanziaria, come quelli del 1988. La spesa pubblica, costante in percentuale del Pil, nel quadriennio 1983-1987, torna di nuovo a crescere in quota del prodotto lordo e nel quadriennio successivo (1987-1990) guadagna ben 5 punti, la pressione fiscale è in aumento di 3,5 punti nel medesimo periodo e il debito continua a salire soprattutto per la torrentizia crescita degli interessi.

Il 7 marzo del 1987 Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, scrive: “L’inflazione è discesa dal 16 al 4 per cento e questo è stato il risultato più apprezzabile e più vistoso dei quattro anni che ci stanno alle spalle (…), il livello della spesa pubblica non solo non è aumentato, ma è anzi lievemente diminuito. Nel frattempo la pressione fiscale è rimasta complessivamente stabile. Il favorevole andamento dei prezzi internazionali ha liberato risorse ingenti che sono state in discreta parte utilizzate per non far peggiorare i conti dello stato. Questo è il merito che va riconosciuto al governo e per questo merita lode. E’ pur vero tuttavia che con quelle risorse si sarebbe potuto fare molto di più per il risanamento della finanza pubblica”.

Secondo Cirino Pomicino l’aumento del debito si deve a tre elementi: 1) la bassa pressione fiscale (era in quel periodo inferiore al 35%, contro il 45 della Francia e il 43,5 della Germania), che però ha portato a quel massiccio risparmio delle famiglie italiane di cui oggi si parla. 2) l’abnorme crescita degli interessi, che passarono dal 5,1 all’8,3. 3) il modesto aumento delle spese sociali, di soli due punti di Pil. Ma il debito era tutto nelle mani delle famiglie italiane e non metteva in alcun rischio la sovranità nazionale. La serena considerazione di Scalfari e i dati forniti da Pomicino portano a un’ultima considerazione politica. Era ragionevole pensare che un intervento più massiccio sulla spesa pubblica non avrebbe allora costituito occasione per nuove tensioni politiche e sociali, visto che il taglio solo di alcuni punti di scala mobile era stato così palesemente osteggiato dal Pci e dalla maggioranza della Cgii? Che proprio da coloro che con maggiore forza e intransigenza contestarono la politica economica del governo vengano i rimproveri per non avere diminuito la spesa pubblica e con essa il debito, appare singolare, contraddittorio e inaccettabile. Oggi.

Mauro Del Bue
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