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da il Resto del Carlino (11 giugno 2016). Palazzo Malaspina, un gioiello reggiano tra restauri e progetti

Cosa c’entrano i Malaspina, famosa dinastia della Lunigiana, con Reggio Emilia? Per comprendere il nome di questo splendido palazzo che si affaccia sulla via Emilia, proprio di fianco a palazzo Ruini e nei pressi della chiesa di San Pietro, bisogna rifarsi al 1842 quando il conte Francesco Malaspina assunse anche il titolo di conte Torello d’Aragona accompagnandosi alla contessa Laura Torello e fece costruire la magnifica villa-parco di Gualtieri. Una villa che ricorda da vicino il restauro operato dieci anni dopo sul palazzo di via Emilia San Pietro, che porta cosi il nome di Torello-Malaspina e che unì due edifici ancora distinti da due accessi e relativi androni e cortili. Quel palazzo era stato già della famosa e munifica famiglia dei Cassoli che si assunsero il compito della suo restauro settecentesco, avvenuto su una struttura precedente di origine quattrocentesca. Il palazzo lo incontriamo passeggiando da porta San Pietro verso il centro ed è situato dopo via San Girolamo. Non è chiaro se Torello fosse una desinenza di Torelli, antica e nobile famiglia ferrarese che si insediò anche a Montechiarugolo e a Guastalla, ma resta la simbiosi dei due nomi che ritorna al momento del grande restyling del nostro palazzo. E’ una costante dei palazzi reggiani il restauro secolo dopo secolo che propone un intreccio continuo di stili e anche di sovrapposizioni. Qui troviamo, come nel balcone ricamato in ghisa, l’emblema ottocentesco dei Torello Malaspina, ma in più parti si scorgono reperti del secolo precedente, pur in presenza di una facciata scolorita e ancora da restaurare. La versione settecentesca si deve dunque a Cassoli, ma non a un Cassoli qualsiasi, bensí a Francesco Cassoli (1749-1812) che fu letterato, latinista e grecista, tradusse Orazio e l’Eneide e fu anche impegnato politicamente e nonostante il suo rango nobiliare divenne  repubblicano e fu addirittura incarcerato e segregato per le sue idee. Una sorta di giacobino o napoleonico esponente della nobiltà reggiana, un eretico come sarà il conte Giovanni Grilenzoni, che divenne mazziniano e che rinunciò agli agi della vita nobiliare sacrificandola ad anni di rischi, di carcere e di esilio. Il conte Cassoli era grande amico dello scenografo reggiano Francesco Fontanesi (1751-1795) che, secondo Antonio Brighi e Attilio Marchesini, autori del fondamentale libro sulla dimore reggiane, sarebbe stato coinvolto nell’operazione settecentesca. In questi due interventi si intrecciano i diversi particolari del reperto edilizio. Il principale cortile che si circonda di tre porticati ha forme neoclassiche ed è oggi in fase di restauro dopo i danni del terremoto e confina con un altro cortile che s’imbatte in un muro affrescato. Lo scalone settecentesco è in marmo con lucernario e quattro statue, varie decorazioni pittoriche sette e ottocentesche, quelle settecentesche, forse riconducibili a Prospero Zanichelli (1690-1772). Fontanesi fu scenografo di fama nazionale, allestì opere a Firenze, Venezia e Bologna. L’ultima a Reggio su musica di Paisiello. Il palazzo mostra una palese contraddizione tra il suo aspetto esterno e il livello di eccellenza degli interni abitati dalla famiglia Fontanesi, tra i quali Giorgio, ex primario ospedaliero, Anacleto, detto Titti, e Antonio. I Fontanesi, non discendenti di Francesco, hanno acquisito l’immobile nel 1929 attraverso Giuseppe, nonno degli attuali fratelli. I Fontanesi si sono imparentati coi Maramotti, perché una Fontanesi, Maria Giulia, divenne madre di Achille. Particolarmente suggestivi i soffitti incastonati, gli affreschi settecenteschi negli ampi saloni interni, i mobili e i tappeti. I Fontanesi attendono i fondi del terremoto per poter dar vita ad ulteriori interventi conservativi. Paradossalmente, si sa, sono spesso i gradi della scala Mercalli, più delle Sovrintendenze, a garantire la sopravvivenza dei nostri monumenti.