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Il 1992 socialista, diario di Mauro Del Bue, quinta e ultima puntata

Benvenuto segretario,
via del Corso vuota

Inutile nasconderlo, il Psi non c’era più. Era stato smantellato e per alcuni aspetti si era smontato da solo. Scrutando un mondo che era già svanito. Cercai di confidarlo al gruppo dirigente provinciale che mi guardava stordito, come se questa fosse solo una mia impressione o addirittura un mio malcelato desiderio. Martelli era finito nel gruppo radicale, Craxi rifugiato al Rafael, tra le monetine lanciate da centinaia di fanatici dopo un comizio di Occhetto. Una gran parte dei nostri parlamentari era inquisita, la  Lega dilagava al nord (mentre dalla frequenze della Rai Santoro incitava alla rivolta) e ovunque i nostri consensi erano ridotti al lumicino, sbriciolati dall’avanzata congiunta della Lega e del pool Mani pulite.

La notizia dell’avviso di garanzia a Martelli l’avevo appresa mentre ero a pranzo con Umberto Bonafini, direttore della Gazzetta di Reggio, nel ristorante “da Fortunato”. Bonafini era a Roma per seguire da vicino l’assemblea nazionale socialista convocata per il giorno dopo. La notizia mi stordì come un pugno nello stomaco e avvertii netta la sensazione che anche l’ultima speranza fosse stata infranta. Mi venne spontaneo commentare: “Non so cosa dire. A questo punto il segretario del Psi lo scelgano direttamente i giudici” (1). Mi precipitai in Transatlantico e incontrai subito Raffaelli, Tempestini, Abruzzese, poi insieme, con Di Donato, ci precipitammo in via Arenula al ministero. Martelli si era già dimesso da ministro e si era autosospeso dal Psi. La cosa ci aveva presi alla provvista. Là c’era anche Bruno Pellegrino per giustificarne le scelte. Claudio ci disse che sul conto protezione aveva semplicemente passato un biglietto e che il Psi allora era soffocato dai debiti e senza soldi e aveva accolto l’invito di Craxi. Di cosa era accusato? Non capivamo le ragioni di un abbandono traumatico della nave, con noi che continuavamo a remare con così tanta fatica, sudati, stremati, verso un approdo incerto. Ci sfuggiva quell’esigenza di abbandonare addirittura il Psi, lasciandoci soli. Alcuni craxiani ortodossi ironizzarono sull’onore che Martelli avrebbe dovuto ridare ai socialisti. Era però evidente che qualsiasi fosse stata la scelta di Martelli il Psi non c’era più. Potevamo prenderne atto.

Dovevamo tuttavia scegliere una linea per l’indomani all’Assemblea nazionale. Ci trovammo improvvisamente orfani e nella assoluta necessità di inventarci un candidato. Tra il candidato della maggioranza, Giorgio Benvenuto (era stato lanciato da Formica con l’appoggio di Signorile e accettato da Craxi), e Valdo Spini, scegliemmo quest’ultimo.

Nell’atrio dell’hotel, prima che iniziasse l’assemblea, mi imbatto in Bobo Craxi che mi abbraccia forte e mi confida che un Psi senza Craxi e Martelli non è più il nostro. Io ricambio e ci scappa da piangere tra le sciarpe che si srotolano dai paltò. E con gli occhi umidi affrontiamo insieme i primi passi dell’assemblea aperta da una relazione di Craxi, tutta tesa a dimostrare che quel che stava avvenendo era un ignobile attacco della magistratura al Psi, un colpo di stato violento, e ricordando anche le vittime, da Moroni ad Amorese a Balzamo. Non un accenno di autocritica, però, non una sola ammissione di errori compiuti. Craxi, come sempre, era molto coerente con la sua impostazione originaria. Manichea. E quando volle incontrare gli ex martelliani in una stanza dell’hotel, lo trovammo anche sfinito e senza voce che gli usciva solo per chiederci: “Chi volete segretario?” (2). Manca gli rispose che avremmo preferito Spini e lui ne prese atto. Si votò e vinse Benvenuto con 307 voti (il 58%) contro i 223 a Spini (il 42%). Si apriva un’altra fase. Ma era già dopo la fine.

Dilaga Tangentopoli, si sfascia il Psi

In un pranzo con Martelli, alla solita “Antica pesa”, vicino a casa sua, mi scappò un rimprovero a Manca e agli altri di eccessivo filo pidiessismo. Non sopportavo che si passasse da una posizione favorevole a rilanciare un’autonoma impostazione socialista a una semplice rincorsa verso un altro partito. E così Manca, al momento dell’elezione della segreteria, mi preferì Mauro Sanguineti, oltre a Raffaelli. Mi pareva francamente uno sgarbo grave. Dovevo pagare la mia amicizia con Martelli? E così, grazie a Mario Raffaelli, si pretese anche il mio ingresso in accordo con Benvenuto e divenni membro della segreteria nazionale.

Giuseppe Alfano, corrispondente de “La Sicilia”, viene intanto ucciso dalla mafia e il boss dei boss Salvatore Riina è arrestato dopo 24 anni di latitanza. La rivoluzione giudiziaria pareva così quasi intrecciarsi con la lotta alla mafia che iniziava a dare buoni frutti (ma li aveva già dati con le leggi di Martelli).

La nuova segreteria (di dieci membri) del Psi, presidente del quale era stato eletto Gino Giugni, era composta di molti giovani (oltre a me Raffaelli e Sanguineti, di origine martelliana, da Nencini, Caldoro, Garesio, Marica Cirone Di Marco) oltre che dal bolognese Paolo Babbini e dal piemontese Felice Borgoglio, dall’ex sindacalista della Uil Enzo Mattina, una sorta di portavoce di Benvenuto, e da Giuliano Cazzola, ex Cgil, per bilanciarlo, e iniziò il suo lavoro tra le macerie. Senza soldi, devastati da debiti, l’Avanti rischiava la chiusura immediata e i dipendenti della Direzione non percepivano lo stipendio. La sede di via del Corso sembrava un’ambasciata dopo un colpo di stato con dipendenti che uscivano con in mano un telefono, una scatola di penne, un quadro, un mobiletto. Si poteva combinare qualcosa in quelle condizioni? Benvenuto aveva addirittura preteso una stanza diversa da quella di Craxi, quasi per segnare una discontinuità o per evitare una contaminazione. Credeva ai fantasmi. Enzo Mattina non disdegnava accuse velenose ai vecchi dirigenti. Anche Spini e Giugni non andavano per il sottile, mentre il leghista Orsenigo agitava il cappio alla Camera e il superpacifico Ugo Intini veniva aggredito nei pressi di via del Corso dai fascisti. Gianfranco Miglio sentenzia: “E’ meglio un innocente in galera che un colpevole fuori” (3). L’antitesi della cultura liberale dilaga.

Intanto anche negli altri partiti era scoppiata la rivoluzione. Altissimo e La Malfa, raggiunti da provvedimenti giudiziari, erano stati costretti alle dimissioni, mentre a Reggio Emilia l’intero vertice della cooperativa Giglio aveva fatto le valigie per la situazione dell’azienda, commissariata dalla Lega, (la Giglio a febbraio venne venduta a Tanzi). Giorgio Marocchi, direttore commerciale di Coopsette, era stato arrestato e liberato, tre dirigenti di Orion (Corrado Canepari, Gianfranco Fantini, Alessandro Preziuso) erano stati invece arrestati e detenuti per giorni a Verona e l’imprenditore Gianfranco Fagioli fermato a Milano (resterà in carcere per intere settimane). Fagioli mi confesserà che Di Pietro lo minacciava di tenerlo dentro per mesi se non gli avesse fornito nomi di politici della sua zona. Lo ricordo cogli occhi stralunati in via della Stelletta vicino alla Camera. Come dire: io non ho ammesso cose non vere per ottenere la libertà, ma voi che fate? Così anche il sistema cooperativo, e sia pure in parte l’industria reggiana, vengono investiti dall’onda giudiziaria. Ma solo per fatti avvenuti altrove e per indagini di altre procure. Quelle emiliane erano ferme e la cosa è quanto meno sospetta.

Anche la situazione del Psi locale è fuori controllo. Nelle sedute dei vari organi e soprattutto nelle diverse assemblee che si svolgono in quelle settimane si mostrano tre ordini di comportamento. Il primo è quello, ormai generalizzato, della base socialista che chiede la testa di tutti, che ritiene che solo un rito di purificazione collettiva possa salvare il partito. Nelle assemblee risulta perfino difficile parlare. Nessuno ascolta, tutti vogliono dire la loro, ma con invettive e non ragionamenti. L’eccitazione è al culmine. La colpa della crisi del partito sarebbe solo di un gruppo dirigente corrotto. Di politica non si parla più. Un socialista mi venne a trovare in quei giorni e mi strappò le tessere del Psi in faccia dicendo che si vergognava. Poi però mi prese da parte perché la figlia doveva presentarsi a un concorso pubblico all’Usl di Reggio. Non mancava un alto tasso di ipocrisia. Si viaggiava all’insegna del nuovo che avanza, del dipietrismo dilagante che aveva contagiato anche il Psi. Altro che difesa di Craxi, altro che lotta al giustizialismo e al pool Mani pulite. Allora non c’era nessuno che sostenesse questa posizione. Tutti gridavano contro tutti e in nome della questione morale. Così mi trovai, proprio io che avevo contestato politicamente Craxi, a sostenere una battaglia contro il dipietrismo con dichiarazioni pubbliche che mi procurarono anche molte critiche interne. Non sopportavo quel mito artefatto, quell’idea del Torquemada meneghino dalla sciabola purificatrice. Non sopportavo quell’uso indiscriminato del carcere preventivo chiaramente illegittimo per forzare le ammissioni di colpa degli indagati. Eravamo ancora uno stato di diritto? Allora era davvero difficile sostenere posizioni simili sulla stampa. Si rischiavano scomuniche immediate. Anche perché emergeranno fatti davvero sconcertanti come quelli che riguardavano De Lorenzo, Poggiolini, la malasanità, le sue sostanziose tangenti.

La seconda posizione era interpretata da chi individuava quella circostanza drammatica come l’occasione per emergere. I profittatori, coloro che solo dalle macerie che avessero inglobato un intero gruppo dirigente pensavano di costruire il loro futuro politico. Si cominciò a parlare di questioni che con la vicenda della fine del Psi non avevano nulla a che fare: il numero dei mandati parlamentari (a Reggio qualcuno propose fossero solo due perché ero al secondo), la regionalizzazione del partito (Franco Gherardi, segretario regionale del Psi, propose di chiamarci User, Unione dei socialisti dell’Emilia-Romagna, e Franco Piro gli rivolse una sommessa preghiera: “Non voglio morire nell’User” (4)). Altri ancora fondavano gruppi quali “Resistere per esistere” (ma se ne andranno senza fare alcuna resistenza nei democratici di sinistra con Valdo Spini), altri ancora proclameranno che il Psi non sarebbe finito mai e saranno i primi ad aderire a Forza Italia, altri infine chiederanno un tesseramento con esclusione di coloro che fossero solo sospettati di una vita irregolare. Come in una setta religiosa. O in un vecchio partito comunista clandestino. Eravamo sotto assedio, e questa era la terza posizione, e qualcuno tentò di salvare se stesso portandosi anche un gruppo di amici, per traghettarli di là, come si diceva allora. Cioè nella nuova stagione politica che sarebbe nata dopo le elezioni anticipate e con le nuove regole elettorali. Questo forse fu l’errore a cui andai incontro anch’io. Forse dovevamo evitare anche solo il tentativo e lasciarci affogare in silenzio.

Mi trovai dunque tra i pochi che sulla questione giudiziaria difendevano Craxi dall’aggressione di Mani pulite. Proprio io che ero stato il primo a contestarlo sulla linea politica dopo l’aprile del 1992, ma in realtà già dal 1989. Mi sembrava impossibile poter resistere politicamente accettando l’idea che Craxi fosse stato un malfattore. Dino Felisetti, il mio predecessore alla Camera, aveva assunto invece una posizione opposta: difendeva Craxi sul piano politico e lo condannava sul piano morale. E scrisse: “Craxi è una figura impresentabile sia sul piano morale che su quello dell’immagine” (5). Dino era più propenso a salvaguardare l’immagine della vecchia tradizione socialista, magari rifacendosi direttamente a Prampolini. Intanto ci piovevano addosso nuove accuse e nuove indagini. E le indagini toccheranno anche il mio amico Mario Raffaelli, raggiunto da un avviso di garanzia su vicende di cooperazione al terzo Mondo, quand’era sottosegretario agli Esteri. Mario era l’amico più caro, quello con cui trascorrevo la gran parte della giornata a Roma. Anche lui si dimetterà immediatamente dagli organi di partito. Si sfilerà in silenzio.

Penso intanto di fare cosa giusta dimettendomi anch’io da consigliere comunale (non aveva più senso mantenere doppi incarichi) e al mio posto subentrò Niger Ficarelli, poi, a marzo, viene arrestato Primo Greganti e si apre, sembra almeno, anche il capitolo dei finanziamenti al Pci. La vicenda Greganti è quanto di più ipocrita possa essere stato concepito. Greganti si autoaccuserà per aver fatto operazioni pro domo sua. E nel contempo diverrà una sorta di idolo del suo partito. Nelle feste dell’Unità distribuiranno anche le magliette con scritto “Viva Greganti”. Delle due l’una. O Greganti era un faccendiere che lucrava per sé e allora non si capisce perché sia stato trasformato in un eroe. O si faceva carico di reati non suoi e allora era colpevole il suo partito. Anche una tangente di un miliardo, portata alla sede delle Botteghe oscure, rimarrà oscura, perché nessuno pare l’avesse intascata senza che sia tornata indietro.

Tra gli arrestati della prima Primavera anche il guastallese Gabriele Cagliari, già presidente dell’Eni, mentre Giulio Andreotti è raggiunto da avviso per concorso in associazione mafiosa (aveva baciato o no Totò Riina?….)

A Reggio Emilia si apre la polemica sulla casa del procuratore Elio Bevilacqua, pagata dal Comune e si intensificano le offensive contro dirigenti e dipendenti delle cooperative e privati da parte del Pool Mani pulite. Anche la Giza (Gibertoni e Giovanardi) è in liquidazione e i primi di aprile arriva puntuale anche l’avviso di garanzia per Forlani, mentre il referendum sulla legge elettorale ha un esito scontato e si trasforma in una condanna della Prima repubblica con Mario Segni sul banco dell’accusa. Archiviato il proporzionale si passa all’uninominale maggioritario anche se il Parlamento dovrà dire la sua. Ma ci riuscirà? Alla fine preferirà fotografare l’esito del referendum. Intanto Craxi riprende a salutarmi e mi prende a braccetto in Transatlantico. Era da mesi che non succedeva. Craxi sapeva essere anche amabile. Era un uomo politico tanto navigato da non dare peso più di tanto alle parole, quanto alla sostanza. In effetti senza Martelli, e con un gruppo di sopravvissuti capeggiato da Enrico Manca, non mi trovavo per niente a mio agio. Con Craxi avevo trascorso una vita. Era stato il mio leader prima ancora che divenisse segretario del partito, quando ancora ero nella federazione giovanile. D’accordo, continuavo a pensare che non avesse previsto le conseguenze del 1989, e non era rilievo da poco. Ma adesso viveva in uno stato drammatico, sommerso da continui avvisi di garanzia. Perché fargli venire meno il mio appoggio e la mia solidarietà? Così fu il 29 aprile, quando votammo sulle richieste di autorizzazione a procedere contro di lui alla Camera. La votazione avvenne in modo segreto e avrei potuto confessare, come fecero altri socialisti, che avevo votato in modo diverso. Invece dichiarai alla stampa locale che avevo votato contro alcune autorizzazioni (in totale le richieste erano sei e in realtà votai contro a tutte) e scoppiò il finimondo. Compresi che avevo firmato la mia condanna a morte politica. Del discorso di Craxi resterà per decenni impresso nella memoria quel passo che riguardava la richiesta di ammissione di correità collettiva. A proposito del finanziamento illecito disse che se c’era qualcuno disposto a giurare di non avervi mai fatto ricorso, doveva alzarsi, dire lo giuro e presto o tardi si sarebbe rivelato spergiuro. Ma nessuno si alzò. Una silenziosa ammissione di correità generale.

La Camera vota contro l’autorizzazione a procedere su Craxi. Del Turco segretario

Il governo Ciampi, che era appena stato costituito, dopo le mancate autorizzazioni a procedere, si trovò in crisi. I ministri del Pds, dei Verdi e del Pri si dimisero immediatamente. Me lo preannunciò Petruccioli subito dopo il voto, appena fuori da Montecitorio. La sera mi recai al Rafael (arrivò anche Berlusconi), con mio figlio Ferruccio, e non si respirava aria di festa. Craxi, che mi abbracciò, mi lesse la dichiarazione del “presidente del Cln Alta Italia Francesco Saverio Borrelli” (6), come lo definì. Era solo stato conquistato qualche giorno di più. Di lì a poco verrà abolita anche l’autorizzazione a procedere. Il Parlamento era sotto schiaffo e chi comandava era il Pool di Milano col sostegno del presidente Oscar Luigi Scalfaro, che di lì poco verrà investito dal ciclone delle tangenti Sisde e risponderà con un insolito j’accuse. Intanto il furore popolare aveva raggiunto l’apice, Di Pietro era diventato il leader del 90% degli italiani, centinaia di parlamentari erano inquisiti e altre centinaia di politici e pubblici amministratori erano finiti in carcere. E c’è anche la gogna politica. Dopo il comizio di Occhetto in piazza Navona si radunano alcune centinaia di manifestanti dinnanzi al Rafael, il 30 aprile, circondando l’hotel, e all’uscita di Craxi si esercitano al vergognoso tiro delle monetine. Le immagini saranno il simbolo dell’aggressività del giustizialismo di sinistra.

Intanto il Pds reggiano approva la vendita di palazzo Masdoni, il vecchio Cremlino, e finisce un’epoca anche per chi non è direttamente investito da Tangentopoli (guarda caso l’ex Pci vendeva il suo prezioso immobile dopo l’esplosione del fenomeno dei finanziamenti illeciti) e nel comune di Reggio si elegge una nuova giunta (ci sono solo tre socialisti e cinque comunisti, più il sindaco). E’ l’inizio del nostro ridimensionamento nel potere locale e precede il turno elettorale. Sarà generalizzato e toccherà dapprima gli enti pubblici (si comincia con la sostituzione di Nicola Fangareggi da presidente del Centro della danza, poi con Giacomo Borghi dal vertice dell’Usl, poi si allargherà alla cooperazione e Niger Ficarelli non sarà più presidente della Lega provinciale, avvicendato dal comunista William Colli dal novembre del 1993, e il mio amico Fabrizio Montanari verrà sostituito dall’esecutivo della Banca popolare, ex banca delle cooperative), poi si estende agli organismi di massa (nella Cna, nell’Api, nella Confcoltivatori, nella Confesercenti, i socialisti escono dai vertici). Resistono, ma ancora per poco, Bertani e Prampolini nell’esecutivo della Provincia. Anche il presidente della Regione Enrico Boselli deve cedere di lì a poco il passo a Pierluigi Bersani, suo vice. Parlo di pulizia etnica che peraltro è appena agli inizi. E un po’ ce la facciamo anche da soli. Dopo il voto su Craxi della Camera se ne vanno dal partito Carlo Ripa di Meana, Roberto Cassola e Giorgio Ruffolo, mentre Giuliano Amato parla di un certo “Eta beta” come del partito ideale, una grande testa e un corpo esilissimo. Aveva unna vaga somiglianza proprio con lui. Poco dopo Antonio Fazio è il nuovo governatore della Banca d’Italia, viene arrestato Renato Pollini, già amministratore del Pci, e anche il presidente dell’Iri Renato Nobili finisce dietro le sbarre. Al suo posto torna Romano Prodi. E poco dopo si verifica l’esplosione di un’autobomba a Roma (obiettivo Maurizio Costanzo) e ci sono 21 feriti. Giorgio Benvenuto getta la spugna e si dimette da segretario del Psi (era stato eletto a febbraio). Mi chiede solidarietà e mi dimetto anch’io. Al suo posto tenta Del Turco, con Boselli vice. Sempre a maggio a Firenze, presso la galleria degli Uffizi, esplode un’altra bomba. Un’intera famiglia di quattro persone è distrutta, la galleria danneggiata e adesso Andreotti viene indagato anche per l’omicidio di Mino Pecorelli. Mafioso e assassino? Ma se fosse davvero così andrebbe riscritta la storia d’Italia e magari rivalutate le Bierre, allora. Ci se ne rende conto? Su Craxi si indagava a trecentosessanta gradi. E più tardi rimbalzerà sulle cronache, oltre l’esistenza dei conti di Larini, anche la sussistenza di quelli di Tradati, che saranno poi affidati alla contessa Francesca Vacca Agusta e a Maurizio Raggio, fuggiti poi in Messico. Sconsolato mi raggiungerà l’amaro commento di un riformista del Pds: “Avevamo puntato sui socialisti, ma siamo finiti tra conti e contesse” (7). Quando si verrà a conoscenza dell’esistenza della tangente Enimont (si parlava di 100 miliardi), invocata dal quotidiano “La Repubblica”, si conosceranno anche le quantità di denaro suddivise tra i singoli esponenti politici, e tra loro saranno coinvolti anche i massimi vertici del Psi, ma anche delle quote destinate ad altri interlocutori, perfino ai giornalisti. Tutto sembrerà indifendibile. Tangentopoli era l’onda che tutto travolgeva con la sua forza d’urto progressiva e incessante. Non conosceva ostacoli, deviazioni, attenuazioni. I decreti di depenalizzazione tentati dal governo (vedasi l’iter di quello di Conso e più avanti di quello di Biondi) venivano immediatamente ritirati o invalidati dal presidente della Repubblica, mentre i voti parlamentari, come quelli su Craxi, erano subito vanificati da procedure successive.

Intanto alle elezioni parziali del 6 giugno il Psi esce a pezzi. E’ al 3,6%, con il 18,8% della Dc, l’11,6% del Pds, il 15,3% della Lega che al Nord è al 30%. Siamo già al dopo Psi e in tanti fanno finta di non accorgersene. Martinazzoli annuncia lo scioglimento della Dc, che s’avvia a divenire Partito popolare, annunciando una propensione e una velocità del cambiamento che supera di gran lunga la nostra e mentre esplode lo scandalo della sanità e viene arrestato l’ex ministro De Lorenzo, finisce in gattabuia anche il reggiano Nino Tagliavini, presidente della coop Unieco. Denuncerà le responsabilità del vertice del Pci e verrà rinviato a processo lui solo. Poi, poco prima dello svolgimento della conferenza del nuovo Psi di Del Turco all’Ergife, si uccide in carcere Gabriele Cagliari e Gianfranco Miglio se ne esce con quelle orrende parole sulle gocce di sangue che sarebbero necessarie per fare avanzare la rivoluzione. Lo definisco “un nipotino di Goebbels” (8). Tutti sembravano esaltati dalla rivoluzione giudiziaria, quasi in preda a una furia iconoclasta, e chi poneva solo delle riserve, o anche opponeva critiche sulla metodologia adottata e sui fini politici della magistratura, veniva zittito, sospettato e anche criminalizzato. Questo atteggiamento giustizialista era ormai trasversale, toccava destra e sinistra, giornali ritenuti moderati come quelli più estremisti, televisioni di Stato e private, radio e movimenti che fiorivano allora come i funghi sull’onda del rinnovamento della politica. Si presentavano nuove facce con vecchissimi metodi e con la sola ambizione di sostituire quelli che c’erano. Quel che mi amareggiava era quel rinnegare senza rinnovare che pareva animare la logica del Psi a livello nazionale e a livello locale. Quel gettare dalla finestra tutto quello che era avvenuto e non produrre alcun vistoso cambiamento politico e d’immagine. Così era suicidio.

Eravamo come bloccati da un mare in tempesta nel quale tentavamo di restare a galla senza muoverci. C’era chi intendeva opporsi al mare e chi si gettava in favore di onda per cavalcarla. Mi sembravano entrambe posizioni sbagliate e controproducenti. Anch’io commisi l’errore di accettare nuove sfide politiche. Da “Rinascita socialista” all’Unione socialista per il polo progressista”, movimenti interni-esterni al Psi che davano l’impressione di aggiungere confusione a confusione, partorite dalla creatività non sempre razionale di Enrico Manca. Ma accettai di restare nella segreteria del Psi con Del Turco, contrariamente agli altri ex martelliani.

Il 20 luglio arriva un timido segnale di vita del Psi. E’ la conferenza convocata all’Ergife di Roma e partecipata da 1.200 dirigenti socialisti giunti da mezza Italia. Del Turco lancia la sua sfida di resistenza, fornisce indicazioni e avanza proposte interessanti e condivisibili. Parla di accordi con i radicali e il Psdi, ma anche con Segni che potrebbe diventare il leader di un polo antileghista. Ma il clima che si crea è malsano. Bobo Craxi viene insultato all’ingresso della sala e Luca Josi, che aveva costituito i comitati Craxi, insulta Del Turco perché non aveva esposto il simbolo del Psi dietro il palco. L’aria si era fatta irrespirabile.

La sinistra vince alle amministrative, la Lega al nord al 30%

Tre giorni dopo si suicida Raul Gardini, dopo l’inchiesta su Montedison che lo aveva invischiato. Un’altra morte violenta, mentre ai funerali di Cagliari, che si svolgono a Guastalla, partono addirittura fischi. Scrivo “Pietà l’è morta” e invio un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia per il comportamento del magistrato De Pasquale. Cagliari se n’era andato dopo quattro mesi di illegale detenzione preventiva. Non poteva più reiterare il reato, non poteva certo fuggire, né manomettere le prove. Venne tenuto in carcere dopo numerose promesse di rilascio. E siccome non io, ma la stampa dell’epoca, aveva sottolineato che il magistrato De Pasquale aveva promesso al detenuto di firmare la sua scarcerazione, ma alla fine non l’aveva fatto preferendo andare al mare, ne rimasi sconvolto. E decisi di presentare un’interrogazione parlamentare. Naturalmente senza risposta. Allora un socialista non ne aveva neppure diritto. Poteva al massimo piangere un compagno che s’era soffocato con una borsina di plastica al collo. E accettare anche i fischi al suo funerale, senza poter fiatare.

Poi la strage a Milano con autobombe che provocano cinque morti e a Roma ancora bombe e 22 feriti. Tra il tentativo di strage di Roma del Natale, la strage di Firenze del maggio e questi nuovi sanguinosi attentati c’è un filo conduttore. Nella catena ci sono altri tentativi non riusciti, compreso uno allo stadio Olimpico. Si tratta dell’offensiva mafiosa fuori dalla Sicilia ordinata da Totò Riina per arrivare a un compromesso tra lo Stato e la mafia. D’altronde rivelazioni recenti sul cosiddetto “papello”, l’ipotesi di trattativa tra Sisde e corleonesi, confermerebbero la motivazione di questi atti di sangue. Magistrati del Pool e Lega in prima fila chiedono invece pulizia e giustizia, come se esistesse qualche rapporto tra le stragi e Tangentopoli.

L’estate volge al termine e anche il segretario amministrativo del Pds Marcello Stefanini viene indagato, mentre la mia Reggiana debutta in serie A a San Siro con l’Inter. Ma anche allo stadio c’è chi se la prende con Craxi. Succederà tre volte, mi trovai minacciato da un energumeno e una volta da un ragazzino che, accompagnato dalla madre mi urlò “ladro”.

Una buona notizia a settembre: intesa storica tra Rabin e Arafat a Camp David che si riconoscono reciprocamente. Ai palestinesi Gerico e Gaza. Poco dopo il prefetto Riccardo Malpica svela i fondi neri al Sisde e i soldi che erano stati messi a disposizione dei vari ministri dell’Interno, compreso Scalfaro. Il giallo si tinge di rosa ai vertici dell’esercito. Il generale Monticone si dimette dopo i piccanti racconti di Donatella De Rosa, che poco dopo diventa anche una star televisiva.

Muore a 73 anni il grande Federico Fellini, mentre chiedo la grazia per il terrorista rosso Prospero Gallinari che vado a trovare a Rebibbia, perché in condizione di salute gravissime. Prendo contatto anche con l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Cossiga lo incontro alla presentazione del libro dell’amico Gianni Cervetti “L’oro di Mosca” (9), col quale il parlamentare pidiessino racconta la verità sui fondi che arrivavano al Pci fino al 1976. Poi si cena insieme e Cossiga mi sollecita la necessità di fare qualcosa per Gallinari. Lui è convinto che si debba chiudere questa pagina degli anni di piombo che ha tormentato una fetta numerosa e non trascurabile di una generazione di giovani. E’ tormentato da questa esigenza, che rilancia continuamente come se volesse giustificare anche il comportamento di chi stava dall’altra parte della barricata. Lo capisco. E infatti una vera e propria guerra civile in Italia c’è stata e si è conclusa. Questi giovani hanno ammazzato e portato nel lutto e nella disperazione tante famiglie. Ma hanno pagato rovinandosi la vita. Si può fare qualcosa? Quando mi precipito con Marco Scarpati nel carcere di Rebibbia e mi imbatto in questi miei coetanei, mi sembra di trovarmi con persone civili, con vecchi amici. Loro hanno volti miti e parole sensate, sembrano bravi ragazzi. Mi viene in mente che hanno sparato e ucciso anche a freddo. Gallinari mi parla anche di calcio, si ricorda di Calloni, del Mirabello coi tubolari, di piazza del Monte dove finivano i cortei. Il suo compagno mi prende per il braccio e mi sussurra all’orecchio: “Fate qualcosa, sta morendo” (10). Gallinari otterrà poi la semilibertà. Morirà nel 2012.

Sarà per il mio rispetto delle prerogative parlamentari, ma soprattutto per la consapevolezza che il carcere preventivo usato in questo modo è illegale, ma proprio non me la sento di votare per l’arresto di De Lorenzo, che deve essere inquisito e processato come tutti. Così anche il voto su De Lorenzo (io e Pierluigi Castagnetti, che votiamo contro l’arresto, siamo accusati speciali) diviene una nuova fonte di polemiche e di accuse.

Quando poi Tangentopoli si trasforma in spettacolo televisivo, e cioè da fine settembre col processo Cusani, si ha netta l’impressione che i veri protagonisti, gli eroi della nostro psicodramma, siano proprio loro, Di Pietro in primis, i giudici milanesi con lui, che entrano nelle nostre case, come un “grande fratello” del futuro. E  a proposito dei fondi Sisde, Scalfaro esclama in diretta televisiva: “Io non ci sto” (11) e si difende attaccando. Solo lui, tra i ministri degli Interni, non avrebbe intascato i 100 milioni periodici del Sisde. Ormai il Parlamento è senza più legittimazione popolare, solo Pannella lo difende convocando i deputati alla mattina alle sette, immettendo nella sua iniziativa, come sua consuetudine, anche un elemento di sadismo. Anche De Benedetti è arrestato, ma solo per un giorno, mentre Giovanni Brusca, che azionò l’esplosivo a Capaci, viene fermato davvero.

Intanto alle elezioni di Milano, Roma, Napoli, Palermo, Genova, Venezia la sinistra vince ovunque quasi contro nessuno. A Roma si va al ballottaggio tra Rutelli e Fini e Berlusconi scende in campo con una dichiarazione a favore di Fini. Sta meditando se entrare nel gioco politico mentre tenta, invano, di convincere Martinazzoli e Segni ad allearsi con Bossi.

Il Psi nel polo progressista

All’assemblea del Psi c’è anche Craxi, il 16 dicembre. E chiede la parola, proprio mentre io presiedo (e lo cosa mi colpisce oltremodo) per contestare la richiesta di Del Turco dei pieni poteri. “Chi è, San Giuseppe?” (12), esclama. Alla fine Del Turco ottiene il 58% dei voti, ai craxiani solo il 42%. Cambia il simbolo (via il garofano e al suo posto la rosa del socialismo europeo) e il Psi si colloca nell’area progressista, visto che le elezioni col nuovo sistema maggioritario incombono. Craxi ottiene ben altro successo al processo Cusani, dov’è interrogato. Se la cava come un leader vero, rispondendo a tono alle domande di un Di Pietro in estrema difficoltà e piuttosto impacciato. Anche oggi si può registrare la logica e coerente impostazione delle sue risposte che sconfinano a  volte nell’ironica presa in giro. Quell’interrogatorio era stato preceduto da alcuni incontri tra lo stesso Craxi e Di Pietro sul tema del finanziamento alla politica.

Anche la Lega viene investita da Tangentopoli per i duecento milioni consegnati al “pirla Patelli” e per il 29 gennaio è fissata la Costituente socialista all’Eur che a questo punto è riservata solo alla maggioranza del Psi che intende collocarsi nell’area progressista. Quelle vacanze natalizie sono solo un momento per riordinare idee e per affrontare un 1994 che sarebbe stato ancora peggiore. Anzi definitivamente letale per il partito. Stona maledettamente quell’aggressione verbale a Ugo Intini, che si presenta in platea col suo pacifico e orgoglioso trend da socialista autonomista.

Tutto cambia attorno a noi. Non esiste più la Dc e nasce il Partito popolare, ma Casini fonda il Ccd, Fini, dal canto suo, lancia Alleanza nazionale e Fausto Bertinotti è segretario di Rifondazione comunista.

Poi la discesa in campo di Berlusconi col video diffuso in tivù. “L’Italia è il paese che amo” (13). D’Alema mi confessa che è una sorta di nuovo fascismo, sia pur in giacca e cravatta, anche se riconosce che i progressisti da soli non ce la faranno a governare il Paese e che serve un’intesa col centro di Martinazzoli e Segni (e anche Giuliano Amato). In quei mesi frequento spesso, oltre a Gianni Cervetti, che risulta poi anche lui inquisito per vicende milanesi (e non difeso dal suo partito), il deputato pidiessino parmigiano Renato Grilli e quello mantovano Massimo Chiaventi. Si cena insieme, si ride insieme (quando si può). Anche loro sono sotto torchio nel loro partito (come lo è Bertolini a Reggio) per la loro collocazione riformista e filo socialista. Rischiano di non essere ricandidati e non lo saranno. Non solo non vogliono i dirigenti socialisti, ma nemmeno i loro amici. E a proposito delle candidature succede di tutto. Vengono istituiti i tavoli progressisti, che fungono da giurie rivoluzionarie, con impietosi commissari pronti alla decapitazione e tricoteuses che urlano contro i politici di professione, soprattutto se socialisti. Apprendo su “La Repubblica” che i Verdi non mi vogliono candidare perché sarei favorevole alla variante di valico (da Bologna a Firenze), della quale non ho mai parlato. Boselli non può essere candidato secondo l’editto emesso dal segretario del Pds di Bologna perché è stato con Craxi fino al febbraio del 1993, il povero Albertini è sotto processo politico a Ferrara (alla fine sarà l’unico risparmiato in Emilia-Romagna), Franco Piro tenta di presentare una lista al Senato in Calabria, fuori Babbini, Ferrarini, Fabbri, Covatta. In Emilia Romagna il tavolo regionale, dove si era recato il segretario del Psi per proporre le candidature di Boselli, mia e di Albertini, boccia tutti e tre i candidati e candida proprio lui, che se ne esce affermando: “Se è per salvare il partito…” (14). Il segretario regionale Gherardi viene immediatamente commissariato dal segretario nazionale del Psi che poi, non trovando di meglio, si candida lui stesso a Bologna, mentre Boselli viene dirottato in provincia di Siena. E succede di tutto, succede anche a Reggio, e chi si reca al tavolo si esime dal sostenermi, anzi sostiene di non avermi neanche mai conosciuto. Insomma tolgo il disturbo quasi volentieri scrivendo una lettera di rinuncia a qualsiasi candidatura a Reggio, Bologna, altrove. In un collegio della provincia di Reggio viene presentato Fausto Vigevani, un socialista di sinistra della Cgil che approderà subito al Pds, come diversi di quei 15 deputati e 12 senatori socialisti eletti nei collegi uninominali e scelti generalmente dagli altri. La cosa che emergeva in assoluta chiarezza era la scelta dei Progressisti, e in particolare del Pds, di dare il colpo finale al Psi eliminando tutti i candidati che avessero un qualche livello di rappresentatività. Il caso che si presentò a Reggio ha dell’incredibile. Si poteva preservare una sorta di modello reggiano di socialismo (nessuno era invischiato in indagini giudiziarie) e per di più nella stragrande maggioranza dei comuni i socialisti amministravano con gli ex comunisti e così negli enti di secondo grado e negli altri organismi sociali ed economici. Si usò invece anche da noi un di più di giustizialismo politico, come se quell’occasione fosse la partita di ritorno del 1989: l’evoluzione del Pci che poteva uscire dalla stretta gola dell’unità socialista eliminando i socialisti. L’opportunità s’era materializzata. Il Psi era già finito, d’accordo, ma laddove ne restava qualche énclave, anche questa doveva essere sgominata, per evitare pericolosi colpi di coda. Bisognava seminarci sopra il sale, come dirà poco dopo il procuratore capo di Milano a proposito delle azioni di Mani pulite. E così fu.

Il dopo Psi

Il risultato del Psi con la rosa, collocato nell’alleanza progressista, è un disastro: solo il 2,1%. Il Psi è finito anche elettoralmente. E inizia una lunga storia di tentativi anche generosi, per riannodare le fila. Nessuno dei quali andrà a buon fine. Nel novembre del 1994 viene ufficialmente sciolto il vecchio Psi e nasce il Si con Enrico Boselli segretario, contemporaneamente sorgono il Psri con Fabrizio Cicchitto ed Enrico Manca e i Liberalsocialisti di Ugo Intini e Margherita Boniver. Il grosso dell’elettorato socialista preferisce Berlusconi e in tanti si schierano in prima fila con lui aderendo al nuovo partito di Forza Italia, che per il momento, però, non candida i vecchi deputati del Psi tranne il solo Maurizio Sacconi, senza neppure eleggerlo. Berlusconi vince le elezioni e governa fino al dicembre, poi è sostituito, dopo la crisi aperta da Bossi, da Lamberto Dini che nel 1996 porta il Paese a nuove elezioni, vinte dall’Ulivo di Prodi. In quella circostanza Intini vuole presentare una lista socialista per il Senato senza il consenso di Craxi, che ottiene qualche manciata di voti e nessun eletto. Intanto mi ritraggo dalla politica attiva per due anni. Non aderisco al Si e faccio dell’altro. Devo guadagnarmi uno stipendio per vivere perché sono troppo giovane per ottenere il vitalizio. Rientro in Provincia dove dirigo l’ufficio stampa per un anno, poi mi dedico alle televisioni, programmando e presentando cicli di musica lirica e di storia, scrivo alcuni libri, collaboro con testate giornalistiche, appronto testi per documentari. Rientro con Claudio Martelli e la sua associazione “Società aperta” solo nel 1997 (a Reggio, con Dino Felisetti, avevamo da poco costituito la Federazione dei socialisti reggiani, anche assieme al Si di Enzo Musi e Nando Odescalchi, dopo una festa al Parco Pertini che rimase in quegli anni l’unico centro di aggregazione socialista della provincia). Poi nel 1998 aderiamo tutti al nuovo Sdi, con Martelli, Intini, Boselli, Schietroma. Il partito si formò a Fiuggi nella primavera del 1998 e alle elezioni europee del 1999 presentò anche Martelli, che venne eletto nelle circoscrizione del Centro, e Bobo Craxi, col consenso di Bettino, che non venne invece eletto al Sud. Conseguì un deludente 2,1%, come il Psi di Del Turco nel 1994. E nel successivo congresso che si svolse l’anno seguente, sempre a Fiuggi, il vecchio Si si mostrò maggioritario ed egemone. La morte di Bettino Craxi, nel gennaio del 2000, rimise in moto un nuovo processo di aggregazione socialista. Il Ps di De  Michelis, la Lega dei socialisti di Bobo Craxi e Claudio Martelli (che si era recato ad Hammamet per i funerali, anch’io ero stato laggiù due volte,  dopo aver ripreso i contatti con Craxi poco prima della sua morte), Stefania Craxi, che poi si sfilerà, fondarono l’anno dopo il Nuovo Psi, che intendeva contrarre un patto elettorale, sia pur transitorio, con la Casa delle libertà, ritenendo l’area ulivista ancora giustizialista e non potabile e tentando, con la presentazione di un simbolo sul proporzionale, di sottrarre qualche punto a Forza Italia, dove s’erano rifugiati in quantità cospicua i voti socialisti. Il Nuovo Psi andò incontro a nuovi ostacoli, a veti imprevisti e insopportabili. De Michelis e Martelli vennero stoppati dallo stesso Berlusconi e il partito, così dimezzato ed umiliato, non ottenne più dell’1% alle elezioni del 2001, senza soldi, senza candidati rappresentativi, senza altro che non fosse la passione di qualche decina di migliaia di orgogliosi aderenti. Andarono assai meglio le elezioni europee del 2004 con il Nuovo Psi che ottenne il 2,1% (sempre lo stesso risultato, che condanna, però…). A Strasburgo finirono Gianni De Michelis e Alessandro Battilocchio. Lo Sdi s’era presentato con la lista “Uniti nell’Ulivo” (assieme ai Ds e alla Margherita). Anche a seguito di quel risultato, e soprattutto dopo la sconfitta della Casa delle libertà alle regionali del 2005, Stefano Caldoro divenne ministro, io sottosegretario, assieme a Nanni Ricevuto. Poi le elezioni del 2006, dopo nuove scissioni e separazioni e col Nuovo Psi ridotto al lumicino dopo un’inutile nuova mini scissione e nella necessità di presentare una lista assieme alla Dc di Rotondi. La lista elesse quattro parlamentari (due socialisti) e altri sei sotto il simbolo di Forza Italia (due socialisti, Chiara Moroni e Nanni Ricevuto, che poi aderirono subito al partito che li aveva candidati). Venni eletto anch’io nel collegio di “Piemonte due”, assieme a Lucio Barani in Toscana, e la cosa mi riempì di soddisfazione perché ero l’unico parlamentare socialista che rientrava alla Camera dopo dodici anni con lo stesso simbolo, il garofano rosso, col quale ne era uscito. La Rosa nel pugno, ottima soluzione elettorale, ma anche politica, nella quale si era collocato lo Sdi di Boselli, alleato coi radicali, otteneva il 2,7%. Un po’ meno di quel che aveva previsto. Ma riuscì a formare un gruppo autonomo alla Camera (anche il Nuovo Psi-Dc venne riconosciuto come tale), mentre al Senato la sua assenza sarà determinante nella caduta di Prodi dopo due anni. Poi l’adesione alla Costituente socialista da parte della supposta maggioranza del Nuovo Psi del quale ero divenuto segretario nazionale (si chiamava allora solo Partito socialista e aveva il garofano come simbolo) e la mia iscrizione al gruppo parlamentare della Rosa nel pugno, mentre Lucio Barani e Stefano Caldoro preferirono entrare nel nuovo Pdl. Sapevamo che era una sfida difficile. Per quanto mi riguarda avevo raccomandato a Boselli di svolgere non una costituente socialista, ma una costituente liberalsocialista che preservasse la Rosa nel pugno, che invece i socialisti dello Sdi vollero mandare in frantumi anche come gruppo parlamentare. La suggestione che Angius, Spini e gli altri che provenivano dai Ds, e che avevano invece imposto una costituente solo socialista, potessero fare la differenza, si rivelò sbagliata. E così alle elezioni del 2008 il Partito socialista, uscito dal cantiere della Costituente, andò incontro a un nuovo disastro collocandosi addirittura sotto l’1%. Il risultato era anche figlio della scelta del segretario del Pd Veltroni che aveva preferito apparentare Di Pietro al Partito socialista, una nuova inaccettabile umiliazione. Il resto è cronaca. Dopo quasi vent’anni di attraversata nel deserto senza arrivare all’approdo, dopo un lungo viaggio, a volte contraddittorio e anche frammentario, dominato, a seconda del periodo, dalla priorità di preservare qualche manciata di parlamentari o da quella di affermare un’identità perduta, si deve prendere atto che la nostra sfida si è scontrata con ostacoli insormontabili, oltre che con errori personali neppure decisivi. Ci ha tagliato la strada una dose alta di prevenzione nei confronti dei socialisti che non è ancora scomparsa, neppure vent’anni dopo, la mancanza di un vero leader dopo Craxi e Martelli, capace di parlare anche al cuore dei socialisti e non solo alla loro testa, ma soprattutto un sistema elettorale che alimenta un quadro politico non identitario, fondato sulla contrapposizione di coalizioni di partiti il cui unico comun denominatore è quello di puntare a vincere. In questo sistema era difficile, anzi impossibile, che potesse rinascere in termini sufficientemente accettabili proprio l’identità socialista, e non quella liberale, democristiana, comunista, che pure restano fortemente compresse o almeno disarticolate e frantumate in diversi corpi politici. Adesso che la cosiddetta seconda Repubblica, mai nata, pare alla fine, che finalmente si redige il bilancio di fallimento di questo quarto di secolo davvero disastroso per l’Italia, che ha aumentato il suo debito pubblico, non ha prodotto crescita, ha dilatato l’area della disoccupazione e del precariato giovanile, ha fortemente indebolito la democrazia, creando un Parlamento di nominati, consigli regionali anch’essi in parte bloccati grazie ai cosiddetti listini, ha concepito giunte regionali, provinciali e comunali designate dai presidenti e dai sindaci e non elette dai consigli, ha creato consigli senza alcun potere, che sono indotti a dimettersi qualora il solo sindaco o presidente sia costretto a lasciare, adesso che si pensa di abolire le province e le circoscrizioni perché costano troppo e si vuole  adottare un modello istituzionale puntando solo sul minor costo e non anche sulla maggiore partecipazione, adesso che fine farà la democrazia italiana? E legare il rilancio della democrazia al rilancio della politica e a quello della politica il rilancio di identità storiche che sono presenti e vive in tutti i paesi europei tranne in Italia, è ancora impossibile? Diciamo la verità: di tutto c’è bisogno in Italia meno che di un impossibile ritorno al passato. I tanti nuovi problemi, la globalizzazione e le sue conseguenze, la rivoluzione tecnologica, informatica, telematica, la velocità dei processi formativi e informativi, proiettano nuove problematiche che i partiti del passato non avevano neppure immaginato. La partitocrazia che noi abbiamo conosciuto è davvero finita per sempre, con i costi impazziti, sedi faraoniche, tesseramenti sovietici, lentezze burocratiche, abusive occupazioni delle istituzioni (che peraltro sono tutt’ora, anzi ora più che mai, occupate). Il sistema italiano, e non quello europeo, è entrato in crisi e poi andato in default anche perché, in questo, era davvero anomalo. Quel che non può essersi esaurita è la passione per la politica, quella alta, quella basata sul confronto e l’affermazione di valori e di progetti di società. E’ questo, non la partitocrazia, che manca oggi all’Italia. In questo senso devono rinascere le identità, a mio avviso riagganciate e non slegate alla storia del Novecento italiano e al presente dell’Europa. Perché i partiti senza storia non hanno la possibilità di suscitare emozione, coinvolgimento, spirito di militanza. E quella socialista, riformista, liberale potrebbe produrre ancora un futuro migliore. E poi perché oggi più che mai si rivela indispensabile costruire l’Europa politica e non solo quella dell’euro, delle banche e dei mercati e nell’Europa di domani si dovranno unire in grandi famiglie, compresa naturalmente quella socialista, laburista, socialdemocratica, anche i partiti italiani. Inutile ricordare che la crisi delle identità politiche investe anche questi partiti e che i populismi, frutto dell’austerity, della immigrazione, del terrorismo, i tre fenomeni che ci hanno colpito nel corso di questo venticinquennio, sono ovunque all’attacco. Anche storia del socialismo reggiano, una storia di un avamposto di provincia, ma sempre collegata ai grandi fatti nazionali e internazionali, una storia che vi ha anche inciso con modelli, idee, suggerimenti, personalità, pensiamo alla figura di Camillo Prampolini, al suo socialismo evangelico e pragmatico, ha forse ancora qualcosa da insegnare e non penso che debba rimanere senza eredi, al pari di quella nazionale. E non è per amore di campanilismo che azzardo di affermare: anche di più. Ma la cosa assurda è che ora, tranne noi, piccolo partito di profughi in perenne attesa di qualche improvviso naufragio capace di condurci in un’isola felice, questa storia non ha eredi. Ma solo vaghi e contraddittori pretendenti. E rischia, ogni giorno che passa, di essere addirittura cancellata. La storia la scrivono i vincitori e i socialisti italiani, che hanno visto giusto dal 1956 in poi, sono paradossalmente risultati sconfitti. Resta un buco nello stomaco per chi è obbligato oggi a osservare il recupero delle storie comunista e democristiana, loro sì soprattutto incastrate nel corpo del nuovo Pd. Oggi sono state riprese e rilanciate le vecchie testate e l’Unità e le sue feste la fanno da padrone in tutta Italia, mentre Berlinguer assurge a punto di riferimento ideale al pari di Aldo Moro. Così, mentre ai leader del Pci e della Dc sono intestate vie e piazze, al leader del Psi, tranne casi isolati, è negato anche l’onore. Ma anche il filone riformista, da Turati, a Rosselli, a Saragat a Nenni viene oggi generalmente oscurato. E solo Sandro Pertini ottiene generali riconoscimenti in quanto antifascista e poi presidente degli italiani, più che non come dirigente socialista. Intendiamoci. Nessuno pensa oggi alla rinascita del vecchio Psi, ma se Pci e Dc oggi hanno eredi nella cosiddetta seconda repubblica, quel che è mancato è l’erede del Psi. Un nucleo politico in cui preservare e valorizzare una tradizione e capace di elaborare nuovi progetti per il futuro. Non c’è una casa oggi, al di fuori del nostro piccolo appartamento, per i socialisti italiani. Non c’è. E questa domanda del 2016 rimanda a quella di 25 anni fa: dobbiamo rassegnarci?

Note
1)    Non resta che Spini, in il Resto del Carlino,12 febbraio 1993.
2)    Ricordo dell’autore.
3)    M. Del Bue, Democrazia e violenza, in Avanti,3 aprile 1993.
4)    Ricordo dell’autore.
5)    Del Turco vince e annulla il congresso, in Gazzetta di Reggio, 22 luglio 1993.
6)    Ricordo dell’autore.
7)    Ibidem.
8)    M. Del Bue, Non uccidete i diritti umani, in Gazzetta di Reggio, 22 luglio 1993.
9)    G. Cervetti, L’oro di Mosca, Milano 1993.
10)  Ricordo dell’autore.
11) Si tratta della dichiarazione in diretta a televisioni unificate del presidente della Repubblica del 3 marzo 1993.

12) Ricordo dell’autore.

13) Berlusconi registra il 26 gennaio 1994 il suo discorso col quale annuncia la sua discesa in campo.

14) Ricordo dell’autore.