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Luci e ombre nella Traviata a metà tra cinema e teatro

5 Novembre 2016 1.318 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Le luci, molte, sono quelle del set che si accavalla con la trama dell’opera, e non sai mai se si tratta della finzione o della realtà teatrale. Son luci della ripresa filmica o lampi di chiaroscuro per accompagnare la storia? In questa nuova produzione teatrale che partendo da Reggio Emilia arriverà nella vicina Modena poi in diverse città della Lombardia, un circuito a cui il teatro Municipale Valli si è aggregato fuoriuscendo da quello tradizionale dell’Ater e da quello più prettamente lirico che fa riferimento a Parma e alla fondazione Comunale di Bologna, i fari sono accesi, risplendono forti, poi più tenui, si spengono, invadono di nuovo il palcoscenico dove pure sono installati. L’idea del set cinematografico non è nuova. Nella coproduzione tra teatri di Ravenna, allora curato dal sovrintendente di Bologna Carlo Fontana, che sarà poi alla Scala, la stessa idea venne al regista dell’epoca nel 1990 con un cast di diversa qualità vocale: Nelly Miricioiu o Denia Mazzola, La Scola, Coni. Allora però tutta la storia era narrata come un film. E c’era coerenza, anche se contestata a suon di buu, mentre oggi la nostra Alice Rohrvacher, regista di film, ha voluto alternare registrazione da macchina da presa e trama in un miscuglio che rende difficoltosa la comprensione. Qui la figura di Violetta, una specie di Alice anche lei, ma nel paese delle meraviglie, fa evidente riferimento ad Alphonsine Duplessis, e non a Margherita Goutier, e il riferimento è invero abusivo in Verdi, che non è il Dumas che della ragazzina dai facili costumi si invaghisce, ma è il musicista che resta preso dalla versione teatrale di La dame aux camelias che si gusta a Parigi nel 1852 con al fianco la Strepponi, anche lei come Violetta dal passato “che l’accusa”. Ma restiamo all’intreccio incongruente, alla grande e insoluta contraddizione di questa versione di Traviata. Come è possibile trasformare la festa del primo atto in un fine set di cinema dove i lavoratori, con tanto di camice grigio, ringraziano la protagonista e poi brindano con lei? E quell’Alfredo che si presenta in mezzo a loro chi è? Un attore anche lui, un innamorato della prima donna, un elettricista? E si potrebbe continuare. Ma passiamo alla musica e al canto, lasciando perdere quel discutibile livello raggiunto durante la festa da Flora con i toreri che sono invitati rimasti in mutande e canottiere e che gettano per aria brache e camicie. Francesco Lanzillotta è un giovane direttore di talento. Lo si capisce quando sceglie di variare i tempi, e li allunga nell’aria di Violetta “Dite alla giovine”, che dilata anche il pathos del sacrificio di Violetta, o quando sceglie il rafforzamento della pausa prima della ripresa del coro finale del terz’atto. Creando così un clima di attesa e di perplessità. Di curiosa sofferenza. Resta però misterioso quel suo insistere su ciò che tutti i direttori d’orchestra intelligenti hanno invece attenuato: lo zumpappà fastidioso del preludio che viene anzi sottolineato con la forza dei timpani e dei fiati e che soffoca la melodia dei violini. Una luce, anche se non sfolgorante, è costituita dalla prestazione di Antonio Gandia, un giovane Alfredo un po’ tozzo, rispetto all’imperiosa avvenenza della Mihaela Marcu, ma dotato di buona tecnica e di discreta estensione vocale, di forza e di carattere. Su Marcello Rosiello una sola osservazione. Non avevo mai sentito cantare un Giorgio Germont in falsetto nei registri acuti. Se si tratta di una scelta musicale come tale va valutata. Se invece mette in risalto un difetto a raggiungere i toni più estesi il discorso cambia. Ricordo a tal proposito, durante un dibattito sull’opera lirica nella quale ero relatore al teatro di Busseto, l’intervento passionale di Aldo Protti, uno dei baritoni più in voga tra gli anni quaranta e cinquanta, che se la prese coi suoi colleghi che non arrivavano al fa. Ogni riferimento a Rosiello è puramente casuale. Che dire della bellissima Micaela Marcu che ha sostituito all’ultimo momento la Katzarava (una scelta, un necessità, boh?). Sappiamo bene l’incongruenza del ruolo di Violetta, soprano di agilità nel primo atto, che si trasforma poi in soprano lirico e anche drammatico. Ecco, la Marcu dovrebbe cominciare a cantare alla fine del primo atto, nel quale il suo fraseggio, le sue tessiture, i suoi guizzi vocali nella romanza Sempre libera e poi nel finale a cui ricorre con quel mi bemolle che non esiste in partitura e che nessuno esegue ormai più per evitare che l’atto si concluda con un grido, paiono sguaiati, sconnessi, slegati. Meglio dopo, molto meglio. Resta un mistero che la giovane rumena possa ad un tempo interpretare Mimì, Gilda, Adina e anche Violetta. Segno dei tempi, in cui i direttori artistici non conoscono la musica. Pubblico come da tempo non si vedeva, molti giovani. Qualche rara contestazione poi alla fine grandi applausi. Verdi vince sempre a cospetto di tutto e di tutti. E ha vinto con la musica, senza set, luci e mutande.

 

 

 

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