Sanremo tra canzoni, musica, ignoranza e follia
Ha vinto il giovane Gabbani, che nella sua canzone (chiamiamola così, ma sarebbe meglio definirla un piccolo spettacolo con tanto di ballo con uomo travestito da scimmione) evoca la crisi di identità occidentale. Il testo appare indecifrabile. Inizia così: “Essere o dover essere, il dubbio amletico, contemporaneo come l’uomo del neolitico. Nella tua gabbia 2 per 3 mettiti comodo. Intellettuali nei caffé, internettologi. Soci onorari al gruppo dei selfisti anonimi. L’intelligenza é démodé. Risposte facili. Dilemmi inutili”. Ora, a parte tutti coloro che hanno votato la canzone e che avranno compreso bene questo testo piuttosto ermetico, non penso sia sfuggito a coloro che conoscono Shakespeare l’errore clamoroso attribuito al verso di Amleto che non é Kant e non si occupa del “dover essere”, cioè della morale, ma del “non essere”. Pazienza. Ma ammettiamo che il testo abbia un qualche potere taumaturgico. Ad esempio quella seconda strofa ancora più sigillata: “AAA cercasi. Storie del gran finale. Sperasi (spera sì). Comunque vada panta rei. And singing in the rain”. Qui si mescolano Eraclito e i Simple plan. Più difficile ancora intendere la tripla A.
Un “AAA adorabile cercasi”, si rintraccia in una vecchia canzone di Bruno Martino. Si vuole evocarla? Non si sa. Poi arriva il ballo e lo scimmione e il coro dell’orchestra. Una trovata quel Namasté (un saluto indiano) olè (più francese ma universale). Un saluto, ma non si capisce a chi. La musica ha le sue regole come la matematica. Si può premiare solo un testo, peraltro inaccessibile tranne che per i votanti e la giuria? Ma un tracciato melodico ci deve essere. Attenzione. Io non parlo di melodia romantica. Anche la dodecafonia di Schoemberg ha le sue regole. Anche la musica pentatonica orientale (basata su cinque toni) ce le ha. Anche la musica barocca e quella dei madrigali ce l’hanno. Anche Battisti che ha scomposto lo schema della canzone tradizionale ce l’aveva. E così Battiato, il più innovatore e trascendente. La canzone che é stata premiata non ce li ha. Tanto è vero che oggi si parla solo di testo. Ma una canzone non é una poesia. Anche il poeta musicale per eccellenza, Fabrizio De André, costruiva un tracciato melodico. Sempre. E perfino le ballate di Brassens e le commoventi poesie musicali di Brel ce le avevano. Si parla di un paragone col primo Battiato, ma non regge. “Un centro di gravità permanente” era costruita con un ritornello e con un testo assolutamente innovativo e pregnante. Così come “Voglio vederti danzare”, dove il testo si arrotolava in citazioni mediorientali. Sono pezzi con regole. Con suoni e parole che si rincorrono e si intersecano. Non sono un parlato con trovata da spettacolo circense. Anzi Battiato canta spesso seduto e quasi pregando. Intimamente.
Credo che adesso si punti sulla canzone parlata e sul coup de theatre. Dove la musica é sostituita dal racconto. Ma questa é altra cosa. La canzone di Ron, ma anche quella del maestro Fabrizio, quello delle più belle canzoni italiane degli ultimi vent’anni (da Mia Martini a Renato Zero) avevano tracciati musicali moderni e armonie interessanti. La loro eliminazione chiude forse l’epoca della canzone musicale. Strano però perché poi, contemporaneamente, viviamo l’epoca dei revival e del remake e grandi cantanti contemporanei quali Rod Stewart e lo stesso Battiato ci forniscono eccellenti interpretazioni (anche molto apprezzate e di successo) di pezzi classici di decine d’anni orsono. Io non ho la mente rivolta al passato. Anche se penso che tra “Mi sono innamorato di te” di Luigi Tenco, cantata in premessa festival da Tiziano Ferro (perché non proporre la canzone del festival “Ciao amore, ciao”?) che ha voluto ricordare il grande e innovativo cantautore suicida a Sanremo 50 anni fa, e i pezzi del Sanremo odierno ci sia un mondo. Ha ragione Gigi D’Alessio, dodici anni di conservatorio musicale ed eccellente pianista: la giuria era composta in buona pare da persone che non conoscono la musica e da una parte suscettibile e condizionata dai Talent e dai Social. Se però a tutto questo deve piegarsi la musica chiamatelo in altro modo il festival. Non più della canzone, ma del costume italiano. Le parole, se non per Gabbani, ma almeno per noi, hanno ancora un significato.
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