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Non siamo già oltre?

Dopo la dèbacle dell’Spd in Nord Reno-Westfalia, feudo dei socialdemocratici tedeschi, regione paragonabile a quel che é l’Emilia-Romagna per la sinistra italiana, non sarebbe male tracciare un quadro della crisi del socialismo europeo. Cominciamo dalla Grecia, dove il Pasok della famiglia Papandreu, Andreas, poi George, ma anche il nonno Georgios era alla testa di un governo in esilio, é passato in sei anni dal 43% del 2009 al 4,7 del 2015, riuscendo a rimontare nelle seconde elezioni dello stesso anno fino all’ambizioso 6 in coalizione con un’altra lista, mentre l’ultimo Papandreu con il suo nuovo movimento socialista non ha raggiunto il quorum per la rappresentanza parlamentare.

Continuiamo con la Spagna. Sembravano una delusione ineguagliabile i dati elettorali del Psoe alle elezioni del 2011 vinte dai popolari. Il 28% corrispondeva a una perdita addirittura di 15 punti rispetto alle consultazioni precedenti. Il nuovo segretario Pedro Sanchez ha fatto peggio ed é arrivato al 22 e dopo il secondo ricorso al voto del 2016 i socialisti si sono anche divisi. La maggioranza ha scelto di rendere possibile il governo Rajoy, i catalani e lo stesso Sanchez si sono opposti. Sanchez si é dimesso da segretario e da deputato, il Psoe é senza guida e in piena crisi. Se in Grecia un nuovo partito, Syriza di Tsipras, ha conquistato la leadership della sinistra, in Spagna il nuovo movimento di Podemos ha superato la percentuale del Psoe. Due movimenti nati pochissimi anni prima hanno surclassato i consensi di due partiti socialisti tradizionali.

La stessa cosa é avvenuta in Francia. Ne abbiamo già parlato e non ci dilunghiamo. E’ vero che si é votato per il presidente e non per il Parlamento (si voterà tra poche settimane). Ma la Francia é una repubblica presidenziale e il voto per il presidente é eminentemente politico. Il candidato di un movimento, En marche, nato qualche mese prima, ha conquistato al primo turno più di cinque volte i voti del candidato del Psf. I socialisti, dopo la scelta di Hamon, si sono frantumati, col primo ministro Vals che ha scelto ufficialmente di appoggiare Macron. A proposito della foto in camicia bianca mi viene in mente che nessuno dei tre, Sanchez, Vals e Renzi, si trova oggi al posto di allora. Foto maledetta?

Aspettiamo le elezioni nel Regno unito senza farci illusioni sul risultato dei laburisti, oggi alle prese con divisioni forse mai registratesi in passato, a seguito delle strampalate decisioni del loro leader Corbyn, addirittura sfiduciato dall’82% dei suoi deputati dopo la scelta della Brexit e oggi padre di un programma elettorale con al centro massicce nazionalizzazioni e l’aumento della tassazione sulle imprese (esattamente l’opposto di quel che si propone in Italia) e che tutti i sondaggi danno catastroficamente perdente. Un quadro, dunque, fortemente critico, per non dire ferale, che segna una fase di passaggio, al di là dei nomi, da una tradizione consolidata ad un’esigenza di novità, di discontinuità, non solo di personale politico, ma soprattutto di programmi, ormai assolutamente svincolati da vecchie ideologie.

Blair lo aveva già capito col suo New Labour degli anni novanta, come in fondo noi stessi l’avevamo intuito quando ci spingemmo con Craxi e Martelli, già negli anni ottanta, in una posizione spesso criticata dai partiti fratelli, così poco ortodossa, così poco tradizionale, liberalsocialista, appunto. Naturalmente non basta l’eresia per risolvere la crisi di identità. Ma penso che né i ritorni al vetero socialismo alla Hamon e alla Corbyn, né il semplice radicalismo alla Sanchez, né il tradizionalismo alla Schulz serviranno a frenare il declino. Occorrerebbe andare alle radici del problema. Interrogarci sull’europeismo, che a mio avviso deve restare il cardine di un progetto socialista e riformista. Sposare alcune proposte che lo stesso Macron ha formulato sull’Europa politica (vedasi eurobond, debito comune, governo eletto, difesa comune). Si tratta di obiettivi che devono unire e non dividere i socialisti. Adesso ognuno procede su scala nazionale, secondo interessi economici ed elettorali. Un po’ quel che accadde a seguito dell’esplosione del primo conflitto mondiale che segnò la fine della seconda Internazionale.

La verità é che per esistere un partito socialista europeo ci sarebbe bisogno di un unico grande interesse collettivo, e non di tanti e spesso conflittuali interessi nazionali ai quali i socialisti si sottomettono. Questo riguarda anche l’Italia dove esiste un partito, il Pd, che si ritiene più innovativo degli altri partiti socialisti europei e invece a me pare anche più arretrato, perché per mantenere il suo carattere post comunista e post democristiano ancora non è pienamente omogeneo coi partiti fratelli. E ci siamo noi, piccola comunità di resistenti che non può solo consolarsi con la storia, che non può annullarsi solo guardando indietro e proclamare un socialismo che in fondo si esprime solo nel rimpianto di un vecchio Psi che non c’é più. Riccardo Nencini, l’ho già scritto, fu il primo ad avvertire questa esigenza dopo le elezioni del 2013, subito contestato dagli stessi che poi lo accusarono di subalternità al Pd. Oggi non abbiamo alternativa. O un immediato investimento su una nuova formazione politica non composta solo da noi o la fine di un’esperienza senza possibilità di ritorno. La contaminazione delle idee non sognifica ripudio delle storie. Anzi, queste ultime sono meglio tutelate se riconosciute e valorizzate anche da chi non ne é erede diretto. Ho parlato di socialisti, di radicali, di ambientalisti, potrei aggiungere cattolici liberali e magari azzardare una loro aggregazione in un contenitore anche più grande: questa é la prospettiva immediata che ci aspetta. Potrei concludere che ce lo impone anche l’Europa, oggi.