La sinistra del pubblico, la sinistra del privato
C’era una volta la sinistra statalista, quella di derivazione marxista, che intendeva nazionalizzare per il bene del Paese. Non parlo solo del Pci, ma anche del Psi che pose due grimaldelli alla base della svolta a sinistra che prese piede col governo Fanfani (non quello delle convergenze parallele che si reggeva sul voto di astensione di Psi e di Pdium e che succedette alla tragica parentesi del governo Tambroni, ma quello successivo che si resse sulla sola astensione del Psi): la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’inizio di una politica di programmazione, Quest’ultima, col primo governo a partecipazione socialista, presieduto da Moro, a partire dal dicembre del 1963, divenne un ministero aggregato al bilancio, con l’obiettivo di intervenire direttamente nello sviluppo industriale del Paese.
Il governo Fanfani (la Dc fu sonoramente sconfitta alle elezioni del 1963 a vantaggio dei liberali di Malagoli per le scelte assai innovative prodotte in quei pochi mesi, tra le quali vanno ricordate anche l’introduzione della scuola media unica e la riforma agraria) forse più ancora dei diversi governi Moro (ai quali si deve tuttavia riconoscere la riforma urbanistica, l’eliminazione della mezzadria, la riforma sanitaria, la scuola dell’infanzia statale, l’introduzione delle regioni e molto altro) fu un lampo di coraggio, anzi di spregiudicatezza mentre l’Italia progrediva a ritmi frenetici trasformando gli italiani da ceto prevalentemente contadino in ceto industriale, con i nuovi problemi dell’urbanesimo e della migrazione da sud a nord.
Le grandi questioni italiane degli anni settanta-ottanta hanno capovolto la situazione. L’Italia, dove gli elettori punivano un Psi che pure aveva ottenuto grandi risultati anche in quei primi anni settanta, con lo statuto dei lavoratori e l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, premiavano un Pci che avanzava fino a tallonare, col voto del 1976, la Dc, senza avere mai calcato i pavimenti delle stanze dei bottoni, almeno quelle governative. Questo avvenne fino all’inizio della politica di unità nazionale mentre terrorismo e inflazione rischiavano di mettere in ginocchio il Paese. Solo durante i tre anni di governo Craxi (1983-1987) si riuscì a sconfiggere l’uno e l’altro fenomeno che stava dissanguando l’Italia, anche se il debito pubblico, a causa degli alti interessi, si alzò piuttosto considerevolmente.
Anche allora la sinistra, prima il Psi del Pci, avanzò l’idea di un nuovo rapporto pubblico-privato, tra i saggi di Mondoperaio comparve quello, famoso, che difendeva il pluralismo economico ponendolo a base del pluralismo politico, si cantarono le lodi del Made in Italy, si accentuarono le collaborazioni anche nei servizi, convinti sempre più che allo stato competesse governare e ai privati gestire. Martelli più volte sostituì la declamazione dello stato sociale con quella nuova di società solidale, ove meriti e bisogni si potessero davvero alleare. Nessuno però allora pensò a vendere il patrimonio italiano. Non l’Iri, non la telefonia, non le autostrade, non l’energia.
Tutto questo avvenne a seguito degli anni di Tangentopoli, che diedero un colpo mortale ai partiti politici e alla crisi economica che in Italia non conobbe più i fasti del passato, con uno sviluppo che da doppio della media europea divenne, nei venticinque anni successivi, la sua metà, sfornando una classe politica mediocre rispetto a quella passata e troppo subalterna ai centri di potere economico e finanziario. Cosi dallo statalismo, al nuovo rapporto pubblico-privato, si è passati a una sinistra che concepisce il pubblico subalterno al privato. D’altronde per esaltare il pubblico sarebbero occorse quelle potenzialità della politica oggi scomparse. Anzi lo stato oggi é talmente subalterno che ha deciso di non finanziare più i partiti che dovrebbero essere i suoi primi garanti. Si spoglia volentieri di competenze, non é più guidato dalla politica, si consegna con malcelato piacere. Dovrebbe governare anche mentre altri gestiscono. Invece alza le braccia.
E’ in questo contesto che deve essere collocata la polemica sulla statizzazione o privatizzazione di Autostrade. Secondo dati ufficiali lo stato introita tra affitto e tasse la bellezza di 9 miliardi dalla società di Benetton, che a sua volta chiude i bilanci con utili di 2-3miliardi l’anno. Quanto utile viene reinvestito? E soprattutto quali controlli lo stato é in grado di garantire? Questo il tema centrale. Perché una gestione pubblica sconfina nel disavanzo e una privata chiude con un utile gigantesco? Rivelo un’esperienza personale. Da amministratore del comune di Reggio Emilia verificai che la gestione diretta delle piscine comunali provocava un disavanzo annuo che sfiorava il milione di euro. Dopo aver affidato la gestione (non la proprietà e nemmeno il governo degli impianti) ai privati, questi ultimi guadagnano e pagano al comune un affitto di 200mila euro. Ha ragione Galli della Loggia, lo stato in Italia non c’è e se c’è non si vede. Mai come oggi. Per questo la statizzazione di Autostrade mi pare oggi un rimedio peggiore del male. Resto fedele alle intuizioni socialiste del rapporto tra pubblico e privato, combatto la genuflessione dello stato ai privati, ma con uno stato ridotto cosi, senza politica, senza classe dirigente, con una burocrazia spesso inefficiente, quando non corrotta, mi viene spontaneo lanciare un grido d’allarme.
Leave your response!