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Contro la dottrina Davigo

Camillo Davigo pensa che di innocenti per strada se ne incontrino pochi. Non credo giunga all’estremo limite fissato dal vecchio Miglio quando affermava: “Meglio un innocente in galera che un colpevole fuori”, ma insomma. Davigo non appartiene a Magistratura democratica, la corrente più radicale delle toghe italiane, che in più d’un’occasione ha praticato discutibili ingerenze nel potere politico. Ma il giustizialismo di destra e di sinistra han finito per convergere già in occasione di Tangentopoli. Tanto che Gherardo D’Ambrosio, poi senatore dei Diesse, ebbe a dire che nel Pool esisteva una destra e una sinistra. Inserendo però nella prima posizione solo Tiziana Parenti e promuovendo Davigo in una collocazione per lui assolutamente anomala e conseguita grazie al suo ruolo da Torquemada meneghino durante la rivoluzione giudiziaria.

Davigo è uomo colto, intelligente, freddo e sprezzante. Mai nessuno, quando viene intervistato, osa formulargli domande scomode. Mai che qualcuno gli chieda qualche chiarimento sull’uso, diciamo così, improprio, del carcere preventivo durante il biennio giudiziario, utilizzato come strumento per ottenere confessioni. E certamente avulso dalle tre condizioni previste dalla legge: il pericolo di fuga, la reiterazione del reato e la manomissione delle prove. In realtà, ebbe a dire il magistrato simbolo di quell’operazione, il mitico Di Pietro, senza il carcere (cioè l’uso illegale del carcere) Tangentopoli non sarebbe esplosa. Dunque potremmo sostenere che il fine giustifichi i mezzi abusando di Machiavelli? Pessima funzione della magistratura quella di avere dei fini. E di non applicare la legge, che dev’essere l’unico fine di un magistrato.

Mi é capitato, poche settimane orsono, di presentare il libro scritto dal figlio di Gabriele Cagliari, con la discutibile prefazione di Gerardo Colombo (sindrome di Stoccolma?). Basterebbe leggere le lettere angosciate di Cagliari, scritte prima del suo suicidio, e il suo grido d’allarme per l’utilizzo della galera a mo di tortura, per rendersi conto del rapporto diretto di causa-effetto tra una palese illegalità commessa dai magistrati e la morte di un imputato innocente fino a conclusione del processo. Volli allora, da deputato, in occasione di quell’evento tragico, rivolgere un’interrogazione al ministro della Giustizia sul comportamento del dottor De Pasquale, che dopo quattro mesi di illegale detenzione di Cagliari, e dopo una promessa di scarcerazione, preferì lasciare il detenuto in carcere e partire per le vacanze. Nessuno mi diede risposta. Allora un socialista non ne aveva diritto.

Non so se Davigo abbia personalmente telefonato al ministro Bonafede o al vice presidente Di Maio per raccomandar loro di inserire nella legge anticorruzione la soppressione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Devo dire che su questo condivido la posizione della Bongiorno, per due motivi. Una questione così delicata non può essere affrontata con un emendamento peraltro inserito in una legge che non contempla la materia. Ma c’è una questione di merito, grande come una casa. Abolire la prescrizione dopo il primo grado significa di fatto correre il serio rischio di vedere aboliti Appello e Cassazione. Se un imputato é colpevole dopo il primo grado anche se il processo si sviluppa in tempi indefiniti, come spesso avviene da noi, che bisogno c’è del secondo e del terzo grado di giudizio? Il rischio che un emendamento capovolga l’intero sistema del processo penale é reale. L’appello della Bongiorno, che di processi se ne intende, non può essere lasciato cadere. La dottrina Davigo non può passare.