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Minniti pentito, Renzi partito

Dunque il candidato forte, Marco Minniti, l’unico in grado di contendere il trono pidino a Nicola Zingaretti, ha gettato la spugna. Ci aveva pensato mesi prima di accettare. Aveva ceduto alla pressione dell’ala renziana che vedeva in lui un ottimo segretario in grado di aprirsi al centro moderato e di contrapporsi non solo al salvinismo imperante ma anche al populismo dei Cinque stelle, coi quali invece il fratello di Montalbano intende dialogare per costruire un’alternativa alla destra. Poi Renzi, nonostante la sottoscrizione alla candidatura di Minniti da parte di tutti i sindaci renziani, ha rotto l’incantesimo. A lui del congresso del Pd importa nulla. Lo ha detto. Con una battuta rivelatrice.

Così Minniti, lanciato nella mischia in un’assise screditata dal suo sponsor, ha tolto il disturbo. Per dissentire dai propositi renziani o per acconsentire con essi ancora non è chiaro. Quel che appare sempre più evidente é il distacco di Renzi dal Pd. Per fare cosa? Per ritirarsi come fece Letta a studiare e a insegnare all’estero? Non mi pare il tipo. Per inventarsi regista alla stregua di un Veltroni dopo aver iniziato una serie di conferenze e di trasmissioni televisive? Non ne ha l’età. E staccarsi dalla politica, Letta insegna, non consente poi tanto facilmente di rientrarvi.

Renzi ha un suo progetto politico che si basa sulla crisi ormai irreversibile del Pd e sulla utilità che nel centro-sinistra non esista un solo partito. Le elezioni politiche del 4 marzo e poi i ballottaggi nelle città hanno segnalato la debolezza di una coalizione quasi priva di coalizzati. L’ex presidente pensa, con Calenda, forse lo stesso Minniti, i suoi più fedeli compagni, non Delrio, il più integralista e per questo anti Minniti sul tema immigrazione, di poter sviluppare un’azione più incisiva con un soggetto nuovo di quanto non possa fare in minoranza in un partito in ginocchio.

Quel che appare una semplice distinzione di linea é invece una contrapposizione strategica insanabile. Renzi ritiene i Cinque stelle avversari da sconfiggere alleandosi senza esclusioni aprioristiche (il fronte repubblicano) e disarticolando il centro-destra. Zingaretti, Martina, e naturalmente Cuperlo e Damiano (Ricchetti é prodotto dell’effimero e non lo classifico) puntano invece al dialogo o alla spaccatura dei Cinque stelle in funzione di un’alleanza contro tutto il centro-destra. Anche il Psi ha condotto una dura battaglia, e l’Avanti su tutti, contro il governo giallo-verde e credo, se ne discuterà al congresso, valutando i figli di Grillo una malattia della politica italiana e non futuri alleati di un riformismo rinnovato.

Questo tanto più se il probabile strappo determinerà l’ennesimo rattoppo a sinistra. Già li vedo alzare i loro canti di vittoria i post comunisti che avevano fondato LeU, recentemente sciolta, e che possono rientrare nel partito dopo un esodo infelice e transitorio agitando lo scalpo del fuggiasco traditore. Si ricompatta il vecchio partito, si possono rispolverare i vecchi simboli e le vecchie tradizioni. Senza Rutelli e parte della vecchia Margherita, senza Renzi e i suoi, cosa resterà del Pd? Le spoglie del vecchio Pci-Pds-Ds, per la contentezza dei nostalgici, certo, ma non credo col consenso degli italiani.