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Terremoto nel Pd

18 Giugno 2019 776 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Quando un personaggio della rilevanza di Carlo Calenda arriva al punto di esprimere “vergogna per aver chiesto voti al Pd” c’é da rimanere sconcertati. Sia ben chiaro, il caso Lotti c’entra come i cavoli a merenda. Può essere stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. L’origine del problema sta a monte. Consiste in quel che Cacciari ha definito “un esperimento fallito”, ma anche “un partito mai nato”,  in quel che lo stesso Occhetto ha chiamato “una fusione a freddo” e D’Alema, sia pur nella versione Renzi “un partito che ha portato la sinistra all’estinzione”. Sorge tuttavia una domanda più che legittima. Perché un partito giudicato in questo modo. da autorevoli, ex e attuali. suoi esponenti, continua a esistere? Perché non se ne forma un altro, magari due, come da tempo sollecita Calenda?

Cos’é questa protervia a farsi del male in nome di un capovolgimento della vecchia logica politica, non solo comunista, secondo la quale é assai meglio lavare i panni sporchi in casa? L’obiezione può consistere in un azzardato paragone. Esisteva solo un partito in cui una molteplicità di correnti polemizzavano pubblicamente tra loro in una contesa che pareva senza fine. Questo partito si chiamava Dc, ma in essa vi era un solido cemento unitario costituito dal richiamo religioso e dall’afflato anti comunista. Giuseppe Dossetti quando comprese che la seconda ispirazione, senza una contemporanea sfida di profonda innovazione sociale, non lasciava spazio che a una collocazione di centro-destra, non lasciò la Dc, lasciò la politica, diede una improvvisa svolta alla sua vita, che finirà con l’assunzione dei voti.

Come si può paragonate tutto questo all’animus del Pd? Cos’é che ha unito in un partito i Diesse, ex Pds, che provenivano dall’esperienza del Pci berlingueriano, dunque da una fase sì di rottura con Mosca, ma anche differente e spesso polemica rispetto all’esperienza socialdemocratica europea, con la Margherita, un partito in larga parte, con l’eccezione di Rutelli e del suo amico Giachetti, di provenienza cattolica popolare e in molti casi anche democristiana? Perché ad esempio i Diesse si opposero alla nascita dell’Ulivo e invece marciarono a tappe forzate verso la nascita del Pd con il mito veltroniano del modello americano e dunque del bipartitismo e della vocazione maggioritaria? Perché l’Ulivo aveva un traino tutt’altro che post comunista. Tutto si può dire di Prodi e Parisi meno che appartengano a quella tradizione.

Renzi é stato l’unico a delineare nuovi caratteri per il partito. Ha aggregato voti d’opinione lontane un miglio dalla sinistra tradizionale. Ha superato il 40 per cento alle europee del 2014, poi ha commesso due errori fatali. Ha eletto Mattarella e non Giuliano Amato al Quirinale stracciando il patto del Nazareno e ha sfidato il mondo al referendum del 2015 sventagliando senza pudore argomenti di basso populismo. Se aggiungiamo l’insana teoria della rottamazione, come se i dirigenti politici si potessero comprare al mercato delle macchine nuove, il quadro é fatto. Tuttavia il dopo Renzi, nonostante la scissione già avvenuta, di Bersani e D’Alema che hanno raccolto briciole, é ancora soggetto a notevoli sommovimenti tellurici. Difficile placarli se non si comprende ancora cosa sia ciò che dovrebbe contrassegnare un’unità.

In questi dodici anni il Pd é nato con lo sguardo fisso al kennedismo e all’obamismo, poi ha deciso di iscriversi al Partito socialista europeo (proprio con Renzi che veniva dalla Margherita e non con Bersani, che proveniva dai Diesse che gia erano nel socialismo europeo e internazionale), ha prospettato una vocazione maggioritaria, tra l’altro impedendo nel 2008 al Ps di apparentarsi, poi ha ripiegato sulla coalizione Italia bene comune di Bersani. Ha prima ipotizzato un’alleanza coi Cinque stelle (ricordiamo la seduta imbarazzante in streeming tra Bersani e i grillini), poi negata da Renzi e riaffacciatasi, e poi ancora negata, con Zingaretti. Ha incentrato la sua identità sull’antitesi. Anti berlusconiano prima, poi assai di meno fino al patto del Nazareno, poi antisalviniano. Per non parlare di approccio storico: ha fatto diventare Togliatti e De Gasperi, da viscerali avversari quali erano, due potenziali alleati, Gramsci, da comunista rivoluzionario, un precursore di Willy Brandt, Berlinguer, da euro comunista della terza via, un socialdemocratico ante litteram e Moro, il presidente dei governi col Psi degli anni sessanta, un democristiano filo comunista. Distorcendo la storia (d’altronde un partito dall’identità confusa ha bisogno di una storia altrettanto confusa) e azzerando lo sviluppo del pensiero del socialismo democratico e riformista e i suoi più luminosi esponenti.

Se il Pd non ha un’identità chiara come può evitare spaccature e scissioni? Se nulla tiene insieme i suoi componenti perché mai dovrebbero essere condannati a convivere? Non so cosa accadrà, ma é evidente che un rilancio del centro-sinistra passa anche attraverso una sua radicale riforma. Certo contano i programmi, le idee di fondo, ma nella società della comunicazione, contano sigle di partiti e leader credibili, nei quali molti di coloro che si sono rifugiati altrove possano iniziare a riconoscersi. Continuare a celebrare, con soddisfazione, amare sconfitte, e insistere solo con un’ennesima contrapposizione, oggi l’antisalvinismo come ieri l’anti berlusconismo, per definire un’identità, porterà a nuove e anche più clamorose sconfitte. Dopo Cagliari, attenzione, perché l’Emilia-Romagna potrebbe segnare un punto di non ritorno.

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