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Assalto alla democrazia

11 Luglio 2019 988 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Se mi é consentita un’autocitazione, riprendo uno dei temi con i quali si chiude il mio libro, “L’unità…”, per tentare di disegnare il futuro della sinistra riformista italiana. E cioè la questione democratica. Ne parla, opportunamente, e con dati inoppugnabili, Antonio Polito nel suo editoriale sul Corriere della Sera. Sullo stesso giornale Vladimir Putin aveva rilasciato un’intervista con la quale il leader russo propugnava apertamente la fine delle democrazie liberali. Il suo eguale ungherese Orban, entrambi uniti dalla militanza nel vecchio partito comunista, più volte ha definito la sua come una “democrazia illiberale”. D’altronde il modello cinese, oggi contestato massicciamente dai giovani di Honk Kong, ha fatto molti proseliti e si spinge ben più in là, non essendo nemmeno democratico, ma a partito unico e garantisce libera iniziativa privata e sviluppo economico.

Un tempo, per contestare le forme di socialismo a partito unico, che negavano la libera iniziativa privata si sviluppò su Mondoperaio un interessante confronto sul rapporto tra pluralismo politico e pluralismo economico. Si pensava che l’intreccio fosse così stretto da dipendere, l’una cosa, dall’altra. Si parlava di socialismo e si ammetteva dunque, cosa che per un socialista negli anni settanta non era affatto scontata, la possibilità, anzi, la necessità della libertà economica. Oggi si scopre invece che il pluralismo economico, questo è il caso della Cina, non favorisce per nulla il pluralismo politico e non è neppure da questo determinato. E anzi che il capitalismo cinese é meglio garantito, coi tempi delle decisioni più veloci e rassicuranti, senza legislazioni complesse e faticose, da un sistema politico accentrato e monopolista. Senza scontri, pressioni, compromessi, mediazioni che sono lo scotto delle democrazie. E che spesso finiscono per complicare le azioni economiche.

Allarmanti sono alcuni dati citati da Polito. Solo un giovane americano su tre pensa che sia un bene vivere in una democrazia, mentre uno su sei ritiene che sia un bene un governo militare. Negli ultimi quindici anni i diritti individuali si sono ristretti in 71 paesi del mondo, mentre i regimi non democratici, che rappresentavano nel 1990 il 12% del Pil mondiale oggi sono il 33% e tra breve supereranno il 50%. I muri, che nel 1989 erano 16, oggi sono 71 e la maggior parte in Europa. Sono nati sistemi in cui si vota ma nei quali sono assai ridotti i diritti democratici o addirittura annullati. E’ il caso della Russia, della Turchia, dell’Iran. In Italia, alleata orami apertamente con la Russia di Putin e con l’Ungheria di Orban (l’America di Trump non ha grandi titoli per dare lezioni), si avverte il bisogno dell’uomo forte (Salvini) mentre i suoi alleati ipotizzano un parlamento di sorteggiati, criminalizzando la politica democratica, con la pericolosa seminagione dell’odio verso gli uomini politici del passato.

Tutto questo può essere fermato solo rimpiangendo il bel tempo che fu? Non credo. Può essere la moderna democrazia, quella che oggi si sposa con la rivoluzione tecnologica, semplicemente blindata e conservata com’è? No. Non ha essa stessa bisogno di adeguarsi alle esigenze di un funzionamento più accelerato, capace anche di sposarsi con tutte le opportunità di democrazia diretta fornita dai nuovi strumenti oggi a disposizione? Penso di si. Quello che i democratici devono contestare è il modello che viene oggi messo apertamente in campo. E cioè, da un lato, quello di una democrazia populista, con un capo eletto direttamente dal popolo con poteri quasi assoluti e senza controlli e contrappesi (questi due ultimi sono i cardini di una democrazia liberale) e dall’altro quello di una democrazia plebiscitaria, che si sostituisca a quella rappresentativa nelle forme, ambigue, della democrazia diretta. L’idea che il popolo possa votare le leggi é quanto di meno democratico possa esistere, perché significa affidare la stesura delle stesse a un potere monocratico e al popolo semplicemente di dichiararsi favorevole o contrario.

Ci dovrebbe essere una sede in cui di una questione del genere si possa discutere oppure la si ritiene secondaria rispetto alla politique politicienne? Costruire il futuro é ancora, come per i socialisti a Torino nel 1978 e Rimini  nel 1982, un imperativo della buona politica, che ha bisogno di alzare il tiro, di parlare di valori e di strategie. Tornerò anche su altre questioni, a sollecitare la sinistra riformista italiana a un grande sforzo di innovazione programmatica attraverso una conferenza di rifondazione e di rilancio.

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