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Zavoli e la musica delle parole

Sergio Zavoli per me, bambino e poi adolescente, era il signore di Processo alla tappa, la trasmissione che seguiva ogni giorno in Tv l’arrivo del Giro d’Italia e faceva parlare non solo i giornalisti e i direttori sportivi, ma anche i corridori. Ce li svelava nella loro umanità, trasfigurava le loro ciclopiche fatiche, sapeva consolarli e dare significato alle gocce di sudore versate sulle strade, ancora in larga parte bianche, con una pacatezza e una vocalità che a tratti si stagliava quasi musicalmente. Provocava un certo effetto quel suo stile misurato, grammaticalmente e sintatticamente perfetto, contrapposto al modo impacciato dei suoi interlocutori. Ma invece di provocare una possibile umiliazione, mettendoli in difficoltà, Sergio Zavoli ne sapeva esaltare autenticità e calore. A tal punto da farli sentire, loro, capitani e lui un semplice gregario. Zavoli é stato il primo a inventare la figura del ciclista parlante. E alcuni di costoro, ricordiamo Vito Taccone, che mescolava italiano e abbruzzese, divennero uomini di spettacolo o di avaspettacolo. Grazie a lui, allevatore e trasformatore del ciclista, che sapeva solo dire “Sono contento di essere arrivato primo”, in un giornalista di se stesso. L’autogiornalista che descrive, in un diario parlato, duecento e più chilometri di corsa e di fatica. Ma poi, diventando uomo, ho incrociato lo scrittore, il giornalista televisivo, e perché no, anche il socialista. Sempre a voce calda e bassa, con parole musicali e ritmi cadenzati ed espressioni che sapevano scavarti l’anima e svelarti un mondo. Non é il caso qui di riprendere gli articoli, i libri, come Socialista di Dio, i programmi televisivi di storia, con Zavoli dietro le quinte nelle vesti di inquisitore buono, perché tutto questo é entrato a pieno diritto nella nostra memoria collettiva, così come nel cinema altrettanto perenni saranno le fantasie creative di un Fellini, romagnolo e riminese come Sergio, quasi ad avvertirci che da queste parti a volte i geni nascono accoppiati. Zavoli socialista, nenniano, figlio del socialismo umanitario e riformista che in questa terra ha dato i natali al meglio della sua tradizione. Socialista come Prampolini, come Edmondo De Amicis, autore di un libro, Cuore, scritto in stile pre zavoliano, dove le parole sono immagini di dolore, di generosità, di amicizia, a volte di morte. E rispecchiano la verità che non é fatta solo di eventi, ma anche di uomini, anzi di uomini ognuno diverso dagli altri e questa specificità rappresentava la curiosità creativa del giornalista. Scavare nell’animo umano é stata la sua attività preferita. E che dire della tristezza di Zavoli. Difficile immaginarlo in un programma disimpegnato e divertente. Cosa c’é mai da ridere oggi, direbbe Sergio, dietro la sua maschera perennemente interrogativa, sempre così compito e convinto che funzione principale d’un giornalista sia di cogliere il senso della realtà. Di incunearsi nei misteri della vita. E lui sapeva accarezzarla, condirla con le note delle sue parole appropriate e appunto musicali. Sempre con quel distacco pacato che non era mai sintomo d’indifferenza, ma di rispetto e valorizzazione dell’interlocutore. Come quando nel gennaio del 1967 commentò il suicidio di Luigi Tenco al festival di Sanremo, stimolando un senso profondo di pietà e scoraggiandone l’elevazione a mito. Tutto ciò che toccava non diventava oro, non era re Mida, ma poesia sì. E saperti offrire un dramma della vita reale alla stregua di una rappresentazione teatrale era la sua magia. Unico davvero, Zavoli, grazie di essere stato con noi.