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Mani (poco) pulite

21 Febbraio 2022 213 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo
Si fa un gran parlare in questi giorni dell’operazione giudiziaria che si é definita Mani pulite e che a febbraio compie trent’anni. Dal nome si doveva capir subito che si trattava di una campagna politica. Non solo perché, come sottolineò subito Luciano Cafagna nel suo libro “La grande slavina”, “quando emerge una questione morale é perché esiste una questione politica”, ma anche perché non era mai stata lanciata da una Procura un un’iniziativa col nome di un prodotto pubblicitario e con un’obiettivo politico di moralizzazione.

Da ogni parte, in qualsiasi strato sociale e in ogni dove, si sapeva dei metodi illegali coi quali avveniva il finanziamento ai partiti. In taluni casi ne erano coinvolti gli stessi magistrati, come poi emergerà chiaramente. Molti partiti non intuirono gli spazi che s’erano aperti in Italia dalla fine del comunismo nell’89 europeo e dalla conseguente eclissi del Pci, il più grande partito comunista d’occidente. Pensavano che il sistema reggesse. E che il superamento del Pci riguardasse soltanto i comunisti. I socialisti varavano lo slogan dell’unità socialista, inevitabile risultato del fallimento della scissione di Livorno. Non capirono di quale significato si nutrisse quella legge per depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti che il Pci aveva sollecitato proprio in quell’autunno del 1989 mentre stavano cadendo i muri e le ideologie del comunismo. Non capirono che quella legge avrebbe salvato i comunisti dal reato praticato dalla nascita e che Gianni Cervetti descrive nel suo “L’oro di Mosca”. Un finanziamento che dal 1921 sarebbe durato fino al 1977, ma è certo anche oltre per talune sue correnti interne. I rubli, dunque, grazie alla depenalizzazione del 1989, non si potevano trasformare in reati. Ma non capirono neppure che con l’89 si sarebbe chiusa un’intera epoca di sistema del finanziamento alla politica, un’epoca segnata dalla presenza di partiti pesanti e costosi, a cominciare dal Pci, il più organizzato e finanziato di tutti, venendo a mancare il quale perdeva di significato anche il ricorso, legittimato de facto, al finanziamento illegale degli altri. Un sistema che Ugo Intiini chiamerà quello dell’Italia dell’Est e che Giuliano Amato metterà in continuità con il regime fascista per la supremazia e in taluni casi l’invadenza dei partiti politici, peraltro, caso unico, normati in Costituzione. Non si compresero queste semplici verità e non se ne intuirono le possibili conseguenze. Questa é doverosa autocritica: la grande slavina travolse tutto. In particolare il Psi che del sistema era l’architrave con la sua politica della governabilità. E in particolare Craxi verso il quale la pervicacia inquisitoria dei magistrati di Milano nascondeva un’ossessione probabilmente indotta. Una caccia al cinghialone, come venne definita da un giornale diretto da un Feltri allora giustizialista. C’era una voglia di vendicarsi per le sfide alla magistratura con le sfide referendarie e le polemiche verso il Csm. Il Psi di Craxi non aveva amici né all’Ovest, per via di Sigonella, né all’Est, per l’installazione degli euromissili, né a Tel Aviv per l’amicizia coi palestinesi. Il Psi di Craxi non aveva sostegni, ma aperta ostilità dal partito trasversale di Repubblica e in particolare da De Benedetti. che riteneva imminente l’opzione giudiziaria, così come la maggioranza del gruppo dirigente del Pds (la rivelazione di Gerardo Chiaromonte é contenuta nel libro di Fabio Martini su Craxi). Il Psi di Craxi non aveva appoggi da parte della grande industria italiana, in particolare della Fiat, che puntava a impadronirsi a basso costo di pezzi di industria pubblica. Così l’obiettivo risultò relativamente semplice. Far fuori dal Pool Tiziana Parenti era in fondo una necessità perché fuori linea, come si ebbe l’impudenza di dichiarare, come far convivere la destra di Davigo con la sinistra di Colombo. Borrelli era la mente fredda, Di Pietro il mito popolare. L’operazione riuscì negli intenti fondamentali: indebolire la politica (ricordiamo l’enfasi del nuovo che avanza e dell’odio per i politici di professione) di fronte agli appuntamenti europei derivati dal trattato di Maastricht, rafforzare i poteri della magistratura, impendendo, da un lato, che si costituisse una commissione d’inchiesta parlamentare su Tangentopoli, la vicenda più clamorosa della storia italiana dal dopoguerra, e dall’altro che si mettesse il veto a qualsiasi riforma di stampo europeo della giustizia. Anche Berlusconi cadde nell’inganno e propose a Di Pietro di far parte del suo primo governo mentre i post comunisti si legheranno mani e piedi in segno di riconoscenza, per i benefici ottenuti, al partito dei magistrati obbedendo sempre alle sue richieste. La sinistra italiana divenne illiberale. Caso unico in Europa. E un uomo di stato, un leader politico, é stato costretto a morire lontano dal suo paese. Non aveva commesso un reato di tradimento, di collusione con le trame di un paese straniero, né si era macchiato di complicità con la criminalità organizzata o con la strategia della tensione. Aveva ammesso di aver fatto ricorso a finanziamenti illeciti. Come tutti, disse alla Camera. “E chi non lo ho fatto si alzi, lo giuri e presto o tardi si rivelerà spergiuro”, disse. E nessuno si alzò. Venne condannato praticamente all’ergastolo in tre processi celebrati in gran fretta e applicando un teorema, smontato dal giudice Nordio a Venezia, basato sul “non poteva non sapere”. Magistrati inquirenti e giudici condizionati dallo stesso Csm che ne determina le carriere, hanno fatto combutta. Non una richiesta degli uni è stata respinta dagli altri mentre gli avvocati difensori mostravano la loro desolata impotenza. Leggere il libro di Nicolò Amato, per rendersene conto. Son passati trent’anni e molti giudizi sono stati rivisti. Borrelli ha chiesto scusa, Di Pietro é stato cancellato da una trasmissione della Gabanelli che denunciava le sue illegalità nella gestione del finanziamento pubblico al suo partito, andato conseguentemente in fumo. Davigo é inquisito dagli stessi magistrati di Milano per divulgazione di atti riservati. E la gente, che trent’anni fa gettava le monetine, osannava Di Pietro e sventolava manette e cappi, stravolgendo il famoso detto evangelico “Chi é senza peccato scagli la prima pietra”, si chiede un po’ ipocritamente se non si stava meglio prima. Posso dire che questi ravvedimenti tardivi mi fanno rabbia? Io continuo a guardare a quella vicenda che ha nome di Mani pulite con lo stesso atteggiamento critico e preoccupato (ma quando mai in Italia si é usato il carcere come tortura?) di trent’anni fa. Ma con molta più tristezza di allora. Perché son passati trent’anni. Troppi.

 

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