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Saggio ironico (e auto ironico) sulla bellezza (per rivista)

Forse bello bello non sono mai stato e forse neanche bello. Da ragazzo si ammiravano i miei occhi azzurri e poco altro. Invecchiando non si vedevano quasi più a causa delle palpebre cadenti e ho dovuto ricorrere a un intervento chirurgico per farli riapparire. Ma quando ero ragazzo io, diciamo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, la bellezza contava molto relativamente. O almeno così si teorizzava. Quello che più si apprezzava era l’impegno politico (ho la vaga sensazione che i primi interventi in assemblea del Liceo fossero proprio ispirati all’idea di far colpo su qualche ragazzina). Poi c’era la musica e mi misi a suonare la chitarra coi capelli lunghi e a comporre canzoni. Avevo frequentato il Conservatorio con poco entusiasmo, ma poi quelle nozioni mi furono molto utili ai fini delle esibizioni musicali (allora andavano di moda i complessi) e io ne seppi approfittare. Mi mancava solo l’eskimo ed ero un sessantottino perfetto. Mai rivoluzionario, ma solo riformista, un po’ anarchico forse, per non dare troppo nell’occhio. Tutto questo anche per via di una tormentata e piuttosto devastante acne. Ammiravo molto i belli, coloro che avevano il volto pulito. Loro non avevano bisogno di interventi politici in assemblea e di chitarre per far colpo. Bastava che beccassero due parole due e che cantassero intonati ed era fatta. Immaginatevi voi un ragazzo che ha un appuntamento con una sghimbescia e un’ora prima vede spuntare sul naso un foruncolo che é grande come quello cantato da Jannacci che era “forse un patereccio”. E avere la sensazione che più te lo guardavi allo specchio e più si ingrandiva e lo riempivi di creme e te lo riguardavi mentre tutto il naso diventava giallo e non sapevi se coprirlo con un cerotto o lasciarlo all’aria aperta in modo da far dire a lei appena incontrata: “Ma cos’hai sul naso?, con una smorfia di stupore e quasi di rimprovero. Come mio nonno che a pranzo mi diceva: “Ma cos’é quel rosso lì?” e la premurosa nonna lo interrompeva rimproverandolo perché non lo doveva dire per non farmi star male e lui continuava mettendosi una mano alla bocca e gesticolando. Avrei pagato con la castità un Dio che mi avesse risolto il problema e non medici che ridevano perché osavano sostenere che a sessant’anni non l’avrei più avuta questa maledetta acne. E questa stupida affermazione sottointendeva che dovevo essere contento dell’acne perché ero giovane o che dovevo rassegnarmi a invecchiare per vederla sparire. E le creme? Ricordo l’anti acne Sabin o giu di lì e il neo Medrol. Me ne spalmavo in quantità ogni giorno, poi ogni ora, poi ogni minuto. Vivevo col neo Medrol più che con i miei amici. Anzi speravo che lui diventasse il mio migliore amico. Ma niente. Anche lui mi tradiva. Come quella ragazza al mare che mi abbandonò nella discoteca perché mi venne il vomito. Non per lei che era decisamente carina. Ma perché a cena volli ingurgitare otto uova per tonificarmi. Non si sa mai… Tutto questo e altro ancora si può inventare un non bello, reso tale da circostanze esterne. Che sembravano vere e proprie maledizioni, colpe da espiare nella memoria d’una adolescenza problematica e da mettere in relazione, come freudianamente si pensava allora, coi problemi dell’infanzia e con il succhio delle tette materne. Freud lo si cercava sempre anche nelle risposte alle domande più assurde come: “Perché quella della terza B non esce con me?” E si scioglieva l’enigma cercando il rapporto col padre. E’ colpa del sistema, si pensava. Ma sì anche l’acne che non mi permette di uscire con quella lì. Il capitalismo inventa questa malattia per produrre nuovi farmaci e sfruttarci di più. E farci stare all’acqua. Quanti boccettini di neo Medrol saranno stati venduti? Oggi non so se la bellezza sia merito e virtù. Allora si faceva finta che non contasse molto ma poi noi le bruttone non le avevamo in nota e tra una rara bellezza e una culona padana, sia pur intelligente e impegnata, non c’era gara. Eravamo un po’ ipocriti. O meglio maschilisti. Pretendevamo che le ragazze s’impuntassero sulla nostra intelligenza, ma noi guardavamo le loro cosce. Fuori da ogni metafora, forse se fossi stato bello non avrei fatto tutti sti sforzi per sconfiggere i brufoli con l’impegno politico e forse non sarei neanche arrivato dove sono arrivato. O forse per conquistare una donna non avrei avuto bisogno di usare un di più di creatività. E di aggrottare le ciglia, parlare per intortarle di Goethe e di Pirandello, con le più ostinate si usava anche “A la rèchèrche du temp perdu” di Proust. No, per i belli bastava dire poche parole e passare subito all’azione. Oggi é peggio. O meglio. Viviamo nella società dell’immagine. Viviamo nella società senza tempo. Mio nonno quando aveva sessant’anni era vecchio, adesso un uomo di sessant’anni diventa papà e una donna, anche grazie ai restauri dei chirurghi estetici, dimostra la metà dei suoi anni. La vita si é allungata e ringiovanita. Ricordo di aver letto su un giornale una lettera che cominciava cosi: “Sono un ragazzo di 40 anni”. Un tempo sarebbe stato un refuso. Oggi tutto, o meglio quasi tutto, é possibile. Se hai il naso lungo te lo accorci, se hai poche tette le ingrossi, se hai le orecchie a sventola le sistemi, se sei brutto puoi diventare bello, o quanto meno piacente. Se sei ricco puoi diventare povero, ma se sei povero resti brutto. E che dire delle segretarie che devono essere carine e delle giornaliste sportive (la prima fu Alba Parietti) che devono avere belle gambe e sorriso smagliante? Poi ci sono, per dirla con la povera Marchesini, “le belle figheire”, quelle che della bellezza fanno una professione. Stanno generalmente coi calciatori che sposano anche, poi si separano. Cosa facciano davvero nella vita non é dato saperlo ma sono seguitissime nelle riviste di gossip che sanno tutto di loro, anche quante volte e per cosa si sono recate dal chirurgo estetico, magari in Francia che fa più glamour. In tutta questa rivoluzione sulla bellezza mi chiedo: “Ma un ragazzo con l’acne avrà ancora bisogno di tutte quelle creme e quelle storie e quella fatica per abbordare?”.