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Socialismo riformista e socialismo liberale

Sono, questi, due termini contrapposti o compenetrati? Possibile che mentre per oltre un secolo la qualificazione di riformista sia stata considerata come sinonimo di moderazione e, di più, di cedimento, adesso sia divenuto patrimonio comune, mentre quella di liberale si qualifichi tuttora come fonte di deragliamento? Cerchiamo di fare chiarezza. Il termine riformista nacque proprio dall’accusa dei massimalisti. Si chiamavano sindacalisti rivoluzionari e all’inizio del secolo scorso accusavano i principali fondatori del Partito dei lavoratori, nato a Genova nel 1892, e che l’anno dopo, col congresso di Reggio Emilia acquisì la denominazione di socialista, di accontentarsi delle riforme e di appoggiare per questo i governi liberali. Questa accusa di riformismo era peraltro campata in aria, giacché Filippo Turati, Claudio Treves, Camillo Prampolini, Leonida Bissolati, intendevano costruire una società che, com’era scritto nella manchette de “La Giustizia”, ponesse la proprietà “su basi collettive”. Solo che erano contrari alla logica del tanto peggio tanto meglio, alla teoria dell’ora x, alla violenza, che accettavano solo per scopi difensivi, quando fossero venute a meno le libertà fondamentali per procedere nel cammino, nella “via lunga che é la sola breve”, come segnalerà Turati nel suo intervento al congresso di Livorno del 1921, nel quale i riformisti si presentarono, peraltro, con una mozione nient’affatto riformista e capeggiata dal rivoluzionario Costantino Lazzari che la rivoluzione non la rifiutava affatto, ma la rimandava al domani. Si può ben dire che l’accusa di riformismo sia stata la ragione dell’espulsione dal Psi nell’ottobre del 1922 di Turati, Matteotti e degli altri, perché giudicati, a tre settimane dalla marcia su Roma, rei di volere appoggiare un governo democratico che sbarrasse la strada al fascismo. Costoro fondarono il Psu e La Giustizia ne divenne quotidiano nazionale direttadallo stesso Claudio Treves. Ma il punto di continuità di questo partito con l’originario era proprio l’accettazione del marxismo, o meglio ancora, della parziale revisione dell’ultimo Engels che, nella prefazione al libro di Carlo Marx “La lotta di classe in Francia”, aveva preso in seria considerazione, attraverso il suffragio universale, l’ipotesi di evitare una rivoluzione violenta per la presa del potere del proletariato. Il cosiddetto socialismo riformista non elaborò un pensiero, lo fece Bernstein in Germania in polemica col marxismo ortodosso di Kark Kautsky. Solo Ivanoe Bonomi si diede al revisionismo teorico col libro “Le vie nuove del socialismo”, pubblicato nel 1907. Carlo Rosselli, l’inventore del socialismo liberale, proviene dal riformismo. Rosselli era un seguace di Turati e lo seguì nel Psu. Poi dal confino di Lipari scrisse il famoso volume “Il socialismo liberale”, pubblicato a Parigi nel 1930. La novità, ma eravamo nel periodo in cui le dittature di stampo fascista e comunista stavano dilagando e il termine liberale si affacciava anche come rivoluzionario, era proprio nella contestazione del marxismo. Rosselli ritiene che non solo in Lenin si riscontri il fenomeno dell’autoritarismo, ma che questo sia presente già nell’elaborazione di Marx. Soprattutto nella accezione della dittatura del proletariato e un’inesistente teoria dello stato, come poi osserveranno gli intellettuali di Mondoperaio in un apposito seminario. Il liberalismo, per Rosselli, é il metodo, il socialismo il fine. Ma il socialismo deve garantire la libertà per tutti. Quindi deve essere intriso di liberalismo. Anche la concezione delle classi in Rosselli é originale e si collega, anche questa, a un volume di Mondoperaio su “Pluralismo politico e pluralismo economico”. Cioè tra libertà in economia e libertà politica. Ora qui il termine liberale non viene certo inteso come propensione a valorizzare l’esperienza dei governi liberali prefascisti e non deve neanche essere inteso come sinonimo del Partito liberale dell’Italia repubblicana. Il liberalismo, Rosselli era vicino alle tesi laburiste inglesi, doveva semmai guardare oltre Manica dove i liberali venivano concepiti spesso come alternativi ai conservatori. Questa eresia rosselliana venne parzialmente contestata proprio da Claudio Treves, col quale, unitamente al giovane Giuseppe Saragat, Rosselli aveva costituito il triunvirato che reggeva il Psli (nome che il Psu dovette assumere clandestinamente dopo i suo scioglimento decretato dal regime nel 1925). Nel 1930 a Parigi le strade di Rosselli e del Psi, proprio in quell’anno riunificato da Nenni e Turati), si separarono e nacque il movimento di Giustizia e libertà. Il socialismo liberale si scontrò poi, dopo l’esperienza del Partito d’azione, con l’impossibilita nell’immediato dopoguerra di sviluppare un’ideale politico senza un radicamento territoriale organizzativo. Nel Psi e neanche nel Psli, poi Psdi dal 1951, nessuno parlò più di socialismo liberale. Si fronteggiavano fino al 1956 due concezioni del socialismo: una di stampo filo sovietico e sostanzialmente comunista del Psi e l’altra democratica e umanitaria del partito di Saragat. Neanche dopo la revisione autonomista di Nenni e neanche, dieci anni dopo, durante il periodo della unificazione si sostennero appieno le idee di Rosselli, fatte proprie invece da settori del giovane Partito radicale. Solo cogli anni ottanta il Psi, grazie all’intuizione di Craxi, che nel 1981 si era decisamente riappropriato del riformismo col Congresso di Palermo (anche del termine riformista il Psi non si era voluto fregiare ufficialmente fino ad allora), lanciò il famoso Lib-Lab, all’inglese. Cioè proprio l’idea di un socialismo liberale. Si teorizzò che il socialismo fosse necessariamente intriso di liberalismo (il liberismo economico è altra cosa) e si iniziò a dialogare con la cultura del liberalismo e cogli esponenti che esprimevano questa cultura. Dunque il socialismo liberale per il Psi degli anni ottanta non era concepito come un deragliamento dal socialismo riformista che proprio agli inizi di quel decennio era stato appieno riconquistato dal partito, ma come suo naturale sviluppo. Diciamo che le riforme potevano essere definite solo in presenza di una cultura delle libertà. Del resto che il Psi sia stato concepito come partito delle libertà era ben chiaro fin dagli settanta con le lotte e le conquiste civili conseguite in Italia grazie al socialista Loris Fortuna. Dunque perché scandalizzarci se noi intendiamo definirci insieme come riformisti e liberali? Sono queste due concezioni del socialismo le uniche che lo hanno salvato dal fallimento e dalla condanna della storia. E meno male che, per la nostra stessa ragione di esistere, sono nati uomini come Turati e Rosselli.