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Il decreto insicurezza

E’ già entrato in vigore il decreto sicurezza del governo che dovrà essere trasformato in legge entro due mesi. Sfogliando il testo, oltre a un paio di buone intenzioni (la tutela dei collaboratori di giustizia e nuove, ma quali non si capisce, norme per agevolare il lavoro interno dei detenuti nelle carceri e per confermare tutti i relativi benefici), si registra un generale, ma credo inutile, aumento delle pene per tutti i reati, dall’occupazione abusiva di case, all’accattonaggio con minori, alle rivolte carcerarie e nei centri per immigrati, all’autonoleggio senza adeguata documentazione, ad altro ancora. Come se un aggravarsi delle pene possa attenuare il numero dei reati. Poi ci sono alcune disposizioni di dubbia costituzionalità come hanno sottolineato 237 giuristi in un apposito documento. Prendiamo il caso di un’aggravante di reato se quest’ultimo viene commesso in stazioni ferroviarie, metropolitane, convogli passeggeri. O addirittura in pubbliche manifestazioni. Un pugno in piazza del Duomo vale un mese di reclusione, alla stazione di Milano tre. Se questo é dato in un bar vale meno che in una manifestazione per l’Ucraina o la Palestina. Questo supera ogni sia pur lecito revisionismo legislativo e sconfina dal dettato costituzionale sulla parità dei reati e l’uguaglianza delle pene. A giudizio dei firmatari il primo vulnus é quello causato alla funzione legislativa delle Camere. In sostanza si stava discutendo del provvedimento quando il governo si é appropriato di un testo e di un compito che solo può essere svolto in caso di necessità e di urgenza. Caso questo che certo non é stato inaugurato dal governo Meloni ma il cui uso si nasconde nella notte dei tempi. Un secondo elemento starebbe nel generale aumento delle pene, che, visto che un imputato dovrebbe conoscere prima se un atto é punibile come reato, contrasta con l’immediata entrata in vigore, dal 12 aprile, di un decreto legge che ne impedisce una  preventiva conoscenza. Contrastano certamente con l’articolo 13 della Costituzione e la tutela della liberà personale, poi, il cosiddetto daspo urbano (un divieto ad entrare negli stadi, secondi il linguaggio sportivo, um divieto a stazionare in un luogo o in una città secondo quello corrente) disposto dal questore che equipara denunciati e condannati, così come la previsione in cui si autorizza la polizia a portare armi anche diverse da quelle d’ordinanza fuori dal servizio. Discutibile poi lo stanziamento di 10mila euro a dibattimento per gli agenti di polizia che siano stati accusati di violenza o altri reati. Qui, dopo averla gettata dalla porta, si riconosce il principio di non colpevolezza dell’imputato fino all’ultimo grado di giudizio. Ma si va più in là, lo si sostiene finanziariamente se utilizza “un avvocato di fiducia” (di chi non si comprende bene). Questo non riguarda nella sua generalità tutti i dipendenti pubblici, che siano stati raggiunti da un’imputazione e debbano subire un processo, ma solo gli agenti. E qui emerge tutta l’impostazione (aumenti delle pene, repressione, aggravanti, disparità di trattamenti) che ispirano le parti fondamentali del decreto. Un po’ confusionario, un po’ dispari, un po’ repressivo. Come la parte che aggrava le pene per per le aziende oggetto di interdittive anti mafia ma che da la possibilità ai prefetti di rinviare di un anno le loro applicazioni alle piccole aziende e a quelle familiari. Anche questa disposizione é costituzionalmente assai discutibile. Applicare o rinviare l’applicazione di un reato a seconda del numero degli addetti in una azienda pare davvero inusitato. Un decreto inutile e discriminatorio non può essere convertito così com’é e il presidente della repubblica avrà un bel daffare per poterlo firmare.