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Domani, lunedì 27 aprile in Consiglio comunale commemorazione del 150esimo anniversario della nascita di Prampolini. Il discorso di Del Bue

26 Aprile 2009 1.320 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Questo il testo del discorso che l’on. Mauro Del Bue pronuncerà lunedì 27 alle ore 11 alla Sala del tricolore:

“A centocinquant’anni dalla sua nascita la nostra città e la nostra provincia sono intrise dell’opera di Camillo Prampolini. E’ difficile individuare nella storia un uomo politico che abbia tanto influenzato il tessuto del suo territorio sia dal punto di vista dell’orientamento ideale, sia dal punto di vista della struttura socio-economica. Possiamo dire senza tema di smentita che ogni giorno a Reggio sbattiamo il muso su Prampolini, e non solo perchè la piazza sua più importante, prima dedicata a Vittorio Emanuele, è stata a lui intestata, ma perché tante sono ancora le idee e i fatti che da lui e dai suoi provengono. Fatti concreti che hanno resistito anche durante l’intemperie fascista e si sono ripresentati nel secondo dopoguerra, interpretati da una nuova egemonia e vivono tutt’oggi coi mutamenti e le revisioni necessarie.

Proprio qui, in questo Comune, Prampolini e suoi si installarono dopo la battaglia elettorale del dicembre del 1899, quando i socialisti sconfissero la vecchia nomenclatura liberal-monarchica ed elessero un avvocato coi baffi risorgimentali, Alberto Borciani, sindaco di Reggio. Di fianco a noi, sulla piazza, è situata la sede principale delle farmacie comunali riunite, che i socialisti di Prampolini, crearono nel lontano 1901, e fu un uno dei loro primi atti amministrativi. A Reggio esiste una grande azienda oggi un po’ pomposamente definita multiutily dell’acqua, del gas e dell’elettricità. Ebbene lo si deve anche al fatto che nello stesso 1901 il comune di Reggio, per scelta di Prampolini e dei suoi, acquistò dalla società svizzera che ne era proprietaria l’azienda privata del gas e della luce elettrica e scoprì poco dopo che così l’energia si pagava assai meno e che la città era anche illuminata meglio. Più complicata fu invece la questione dell’acquedotto che un nobile generoso, che divenne deputato in quel frangente, Ulderico Levi, pagò di tasca sua, dicono per ingraziarsi l’elettorato (per dargliela a bere, potremmo maliziosamente osservare) e che venne inaugurato nel 1885. Anche allora le follie elettorali di oggi non mancavano. Solo che allora servivano per risolvere problemi della città, oggi solo per tentare di eleggere qualche faccia di belle speranze. Municipalizzare era un credo, oggi lo è di meno, anzi oggi semmai la tendenza è quella di privatizzare. Ad ogni epoca del resto i suoi valori. E tuttavia nei primi anni del secolo passato il Comune di Reggio volle municipalizzare anche il macello, il traguanato, perfino il pane. Sì, il pane. La giunta socialista presentò nel 1903 un progetto per l’acquisto di un mulino, di un forno e di un pastificio. Venne anche svolto un referendum sull’argomento nel 1904, clamorosamente vinto, anche se non stravinto, perché fornai e commercianti si schierarono naturalmente contro, gridando al fatto che a Reggio come scrisse “L’Italia centrale”, quotidiano locale del tempo, “era scoppiata la rivoluzione”. Il problema era dar da mangiare agli affamati per dirla con enfasi evangelica, e non conquistare il palazzo d’Inverno. E il pane era l’alimento fondamentale. Reggio era una città con poco più di 50mila abitanti dei quali più della metà ubicata nelle ville del forese e dedita all’agricoltura e in città i rimanenti, escluse poche migliaia di commercianti, artigiani, professionisti e gli operai delle poche aziende che a partire dai primi del Novecento aveva preso piede, erano straccioni iscritti alle liste di mendicità. A questo si dedicarono gli amministratori socialisti dei primi del Novecento. E il più esperto tra di loro, Patrizio Giglioli, commerciante, che veniva da Mirandola, l’assessore che promosse le municipalizzazioni, fu anche indotto a dimettersi dalla locale Camera di commercio. Un commerciante non poteva lottare contro i commercianti ed a un tempo difenderli nella giunta camerale. Così Giglioli promosse le municipalizzazioni anche se a rimetterci era lui stesso. Diciamo che risolse il suo conflitto d’interessi all’incontrario. Penalizzandosi. Cosa davvero originale, ma certamente assai nobile. I socialisti nel contempo aprirono un aspro conflitto con chi sta dall’altra parte della nostra piazza rispetto alla farmacia comunale e cioè con la Chiesa cattolica. Vollero che l’insegnamento religioso nelle scuole elementari, allora di competenza comunale, fosse affidato ai sacerdoti e reso facoltativo, scelsero di licenziare il cappellano dal cimitero e le suore dall’ospedale, e nel contempo aprirono un versante polemico delicato e insidioso, esaltando la figura di Gesù Cristo come primo socialista, che amava gli umili e si batteva per la giustizia, contrapponendolo alle gerarchie cattoliche del tempo che preferivano invece l’alleanza coi ricchi e coi potenti. Ma su questo tornerò. Così come spesso capita in politica, ci fu una reazione. Una reazione congiunta, e si formò un nuovo e conseguente blocco elettorale. I commercianti e i proprietari terrieri, questi ultimi pressati da nuove tasse e da lotte sempre più frequenti per aumenti salariali e nuovi orari di lavoro, assieme alla Chiesa e alla sua rete organizzativa, formarono un fronte unico. Venne definito L’Associazione del bene economico, presieduto dall’alter ego di Prampolini, quel Giuseppe Menda che era venuto da Piemonte per costruire le ferrovie e per industrializzare, con l’apporto della banca Commerciale, la provincia di Reggio. Dai socialisti fu ironicamente battezzato la Grande armata, come quella napoleonica che venne distrutta in terra di Russia. Solo che la Grande armata reggiana ebbe sorte migliore. E riuscì a vincere le elezioni parziali del 1904 e poi quelle del 1905 sbattendo i socialisti in minoranza dopo soli cinque anni di governo locale. E lo stesso Prampolini fu battuto nel ballottaggio de l 1905 da un giovane e sconosciuto avvocato reggiano, Giuseppe Spallanzani, nel collegio di Reggio che i socialisti avevano sempre conquistato a partire dal 1895. Scrisse Giovanni Zibordi sulla sua Giustizia: “Avvocato Spallanzani, pare dunque che andrete a Roma davvero questa volta. Sarete contento. Quando sarete a Roma salutateci Pio X. E cercate di godervela in fretta perchè un’altra volta non la vincerete più. E ringraziate Prampolini perché quando dimanderanno di voi e diranno “Ma chi è?” voi diventerete noto e interessante per questo solo: che siete colui che la bestialità umana di molti al servizio di pochi mandò alla Camera in luogo di Camillo Prampolini”. Strana condanna del destino questa del buon Spallanzani cui anche Turati si rivolse così: “Spallanzani e chi era costui. Forse Lazzaro? Allora dev’essere parecchio invecchiato”. Per tutta la vita l’avvocato-deputato dovrà portarsi dietro questa vittoria come una vergogna. Aver battuto Prampolini era assai peggio che avere perso da lui. Persero ancora i socialisti di Prampolini nel 1906, persero la Provincia e molti comuni e così sembrava che fosse al tramonto definitivo l’esperienza iniziata solo pochi anni prima. La crisi poteva assumere un carattere di imprevista e improvvisa dissoluzione anticipata. Non è qui il caso di analizzarne le cause, perché il tempo è tiranno. Può essere che da parte dei socialisti sia stato eccessivamente cavalcato il tema dell’anticlericalismo, della cooperazione integrale (Vergnanini al congresso di Bologna disse che ormai a Reggio Emilia era stato “paralizzato il commercio borghese”) e con esso quello delle municipalizzazioni a cominciare da quella del pane. Resta il fatto che il Psi, allora guidato dalla corrente rivoluzionaria, che aveva messo in minoranza Turati e Prampolini, non godeva buona salute in Italia e che lasciò ai conservatori altri comuni a cominciare a da Milano e da Bologna. Il dato più concreto che venne registrato fu l’aumento vistoso dell’elettorato dovuto all’alfabetizzazione che veniva partorita nelle parrocchie. Il Psi fondò un ufficio elettorale e diede avvio alle scuole serali dove si presentarono anche persone anziane per conquistare il diritto di voto. Anzichè parlare i socialisti reggiani fecero. Questa era la loro caratteristica. E ci fu la rivincita. La Grande armata si dissolse per divisioni interne e inesperienze congenite e Prampolini e i suoi non vinsero soltanto, ma trionfarono dal 1907 fino al sorgere del bolscevismo e del primo fascismo, fino alla guerra civile del 1921, quando sceglieranno l’astensione e si allontaneranno dalla vita istituzionale e politica.

Ha parlato prima di me il presidente della Lega delle cooperative Ildo Cigarini. E a proposito di quel che resta di Prampolini e del suo socialismo riformista reggiano, penso che un posto di primo piano debba essere accordato alla nascita, allo sviluppo e all’affermazione di questo movimento. E’ con Prampolini e in particolare con uno dei suoi primi collaboratori e maestri, Contardo Vinsani, anche se poi ripudiato perché eccentrico e accusato di essere autoritario e poco versato al dialogo coi soci, difetto che forse appare non proprio solo legato a quell’epoca, che nasce l’esperienza cooperativa reggiana. Nel 1881 Vinsani, un professore di matematica nativo di Reggio, insegnante in mezza Italia, che a Reggio voleva lasciare un segno, fondò la sua cooperativa di consumo, diversa da tutte le esperienze precedenti, perchè composta da soci, ma aperta a tutti e che aveva l’ambizione di costituirsi come alternativa al commercio privato, per abbassare i prezzi e per fornire una migliore qualità dei prodotti. In prospettiva Vinsani pensava addirittura che col cooperativismo si potesse costruire la nuova società senza sfruttamento. Grandi magazzini cooperativi comunali e nazionali avrebbero dovuto costituire il nerbo del nuovo sistema. Inventò addirittura una nuova moneta e finì male per mancanza di capitali e per mancanza di credito. Ma nacque e si sviluppò una nuova esperienza. Nel 1884 sorse la prima cooperativa di lavoro, guidata da Luigi Roversi, al sgnòur Gigi come veniva affettuosamente chiamato in città, che sarà dal 1902 al 1917, con la sola parentesi dei due anni della Grande armata, sindaco di Reggio. E poi il movimento si espanderà anche grazie alle nuove leggi che permettevano alle cooperative di lavoro di partecipare ai pubblici appalti. E nella provincia di Reggio, quando nel 1901 sorse la Camera del lavoro, guidata per poche settimane da Arturo Bellelli e poi da Antonio Vergnanini tornato dall’esilio svizzero a cui era stato costretto dalla repressione di Crispi, si contava già una rete cooperativa e aassociativa di diemensioni impressionanti. Nel congresso del 1902 si registravano già 20 società di mutuo soccorso, 44 cooperative di lavoro, 30 cooperative di consumo, 35 leghe di miglioramento di operai dell’industria, 97 leghe di miglioramento di lavoratori della terra, 50 sezioni dell’associazione tra contadini. Un totale di ben 21.660 soci iscritti. Un numero che lieviterà sempre negli anni successivi. Un esercito di associazioni che Prampolini e i suoi (l’apporto di Vergnanini, di Roversi, di Bellelli, è in questo settore davvero determinante) crearono parallelamente all’organizzazione politica, i circoli, le sezioni, le federazioni di collegio e, da ultimo, la federazione provinciale del partito. In pochi hanno finora davvero saputo cogliere la lucida follia (per restare ad apprezzamenti di una certa attualità) compiuta da costoro che nei primi anni del secolo scorso a fronte del poderoso espandersi del movimento economico cooperativo e associativo fondarono addirittura una banca, la banca delle cooperative, aperta a tutta l’organizzazione economica socialista. E in quanti furono allora a chiedersi cosa stesse accadendo a Reggio Emilia nel settembre 1907, quando venne posta la prima pietra alla ferrovia Reggio-Ciano costruita dal Consorzio delle cooperative appositamente fondato. Non era mai avvenuto al mondo. Negli altri paesi i socialisti parlavano di rivoluzione, a Reggio invece costruivano una ferrovia. Gli studiosi di mezzo mondo guardarono il caso di Reggio Emilia con gli occhi increduli, stupiti e meravigliati e il trenino delle ferrovie cooperative prese il via a partire dal 1909 e nel 1912 trasportò a Canossa anche un socialista di belle speranze anche se un po’ troppo estremista per i loro gusti: certo Benito Mussolini, che aveva partecipato da trionfatore al congresso nazionale svolto al Politeama Ariosto. E per restare al tema perchè non ricordarsi che la diga di Vetto ebbe origine da un progetto del 1861 e che poi i riformisti appoggiarono. Tra due anni dovremo festeggiare il centocinquantesimo anniversario di quest’opera mai fatta. E perché non sottolineare che si pensò proprio allora al porto sul Po e al prolungamento del Po con un canale artificiale che avrebbe dovuto collegare Piacenza a Milano. Perché non rilevare che il sistema ferroviario prevedeva anche la Reggio-Spezia, ma i nostri cugini parmigiani, furono più abili a convincere il nuovo governo del Regno d’Italia che gli preferì la Parma-Spezia, e ciononostante i socialisti progettarono la Reggio-Ciano con l’ambizione di raggiungere Castelnovo Monti e Aulla e qui congiungersi con la Pontremolese. Un’ambizione che non si è persa. Resta ancora qui a Reggio quell’idea che fu di Prampolini, forse un po’ troppo ambiziosa, e criticata perchè localistica, del modello reggiano. D’altronde proprio a quei tempi rimandano alcune intuizioni nel campo della scuola e degli asili nido (a dirigere le scuole comunali, impiantate in ogni villa e potenziate in città, venne chiamato nel 1904 Giuseppe Soglia, mentre gli asili nido vennero aperti a partire dagli anni dieci praticamente in ogni frazione), anche le anticipazioni poi sviluppate ulteriormente nel secondo dopoguerra nel campo della psichiatria e del servizio agli anziani, sono di allora. Era l’epoca di Cesare Lombroso e di Roberto Ardigò, ma anche di Enrico Ferri che parlò a Reggio della questione criminale forse per la prima volta come di una malattia sociale. E poi alla Casa di riposo e di mendicità, (gli uomini di Prampolini tentarono anche una profonda riforma in senso democratico delle Opere pie), si scelse la strada non della semplice assistenza dei vecchi, ma quella del loro recupero alla vita sociale. Ma Prampolini non è stato solo fatti. E’ stato anche idee. Tanto da farmi scrivere che di Prampolini ce ne sono stati due. Uno seminatore, organizzatore, coordinatore, l’altro educatore, agitatore, polemista. Sì, anche polemista dal tratto ispido, giornalista implacabile e intransigente prima su “Lo Scamiciato”, dal 1882 al 1884, poi su “Reggio nova”, giornale cooperativo dal 1884 al 1886 e infine su “La Giustizia”, che prese avvio nel 1886 e che diverrà poi anche quotidiana a partire dal 1904 sotto al direzione del mantovano Giovanni Zibordi. E in mezzo tra il 1893 e il 1894 anche la prima esperienza italiana di un quotidiano socialista, quella del giornale “Il Punto nero”, diretto da Olinto Malagodi, padre del futuro segretario del Pli Giovanni, e che tentò di vivere ma sbattè la faccia contro i debiti e la repressione di Crispi. Prampolini confessò che non fu Marx a convertirlo al socialismo. Anzi di Marx quando compì la scelta egli non conosceva neppure il nome. Egli divenne socialista a giudizio di Turati, per la scene di abbruttimento e di lacerante miseria dei contadini della sua Emilia che quotidianamente dovette osservare, mentre si recava da Reggio all’Università di Bologna, magari proprio a quell’esame di economia ove sosteneva l’assurdità delle vecchie teorie di Filomusi Guelfi che affermava essere il diritto di proprietà indifferente rispetto al diritto al lavoro. Laureato in giurisprudenza, Prampolini tentò anche la carta del concorso al ministero degli interni e venne bocciato. Fu la sua fortuna. Commentò Turati (“Benedetti quei denari che hai buttati via e benedette le intolleranze medioevali del governo. Non ti vogliono e fanno del tuo meglio”). L’Italia perse un funzionario ministeriale magari da bacchettare ad opera dei Brunetta dell’epoca, e acquistò un uomo politico che passò alla storia.

Difficile immaginare il socialismo reggiano senza la propaganda scritta. Pensate che quando venne scomunicata La Giustizia, dal vescovo monsignor Manicardi nel 1901, il giornale passò da poco più di 6mila copie alle oltre 8mila. I giornali di oggi prendano nota. Prampolini fu giornalista, ma fu anche agitatore. Nelle campagne ove teneva i suoi discorsi dinanzi alle stalle coi braccianti e i bovari che ascoltavano parole di speranza e anche laddove come a Canolo, ove venne preso a sassate. E dove tornerà più tardi per trionfare. E poi nel mitico contraddittorio con Romolo Murri al Politeama Ariosto. E poco prima a Genova al congresso di fondazione del partito quando invitò gli anarchici ad andarsene. E soprattutto alla Camera nel 1902, quando il suo discorso proiettato alla comprensione dell’avversario venne definito dal presidente Giuseppe Biancheri quello “dell’apostolo di pace”. Prampolini fu l’evangelico. perchè prese Gesù come punto di riferimento della sua lotta. E sulla sua Giustizia non c’era numero che a Gesù non riservasse almeno un articolo. Conosceva benissimo la Bibbia che aveva letto e riletto durante i mesi del servizio militare a Foggia e sua madre (mentre il padre era un impiegato del Comune di ispirazione liberal-monarchica) era una donna profondamente religiosa, che morì di tisi, come la sua compagna Giulia Segala dalla quale Prampolini aveva avuto la figlia Pierina. Come Mimì e Violetta. La predica di Natale del 1897 è la dimostrazione più autentica del suo attaccamento all’insegnamento cristiano. Questo naturalmente lo portava a polemizzare con Chiesa del tempo non perchè fosse ispirata a Gesù, ma perché non lo era sufficientemente e coerentemente. E il messaggio passò tanto che nei primi anni del novecento si formò a Reggio un gruppo di preti che pubblicarono il periodico “La plebe” e vennero definiti dai socialisti “i preti buoni”. Tra loro don Levoni e don Magnani che più avanti si spretarono e divennero militanti socialisti. Cioè lasciarono la Chiesa cattolica per abbracciare la nuova Chiesa socialista cristiana. Sì, diciamo la verità, quella di Prampolini era una sorta di nuova religione laica che aveva più in Gesù e nei primi cristiani che non nel socialismo scientifico i suoi punti dì ispirazione. Credo che questo passaggio di consegne, così clamoroso, non sia avvenuto in nessun’altra parte d’Italia.

Prampolini fu anche uomo di parte, cioè un riformista legato a Filippo Turati che non a caso a Reggio venne a tenere comizi più volte a partire dal 1892 quando illustrò le conclusioni del congresso di Genova, poi tornò a festeggiare il primo maggio del 1903 e fu a Reggio anche durante la campagna elettorale del 1904-5 per difendere Prampolini dall’offensiva della Grande armata. Turati era più aperto, ironico e brillante di Prampolini. Quest’ultimo era più concreto, introverso e religioso. A tratti anche più integralista. Tra i due era nata un’amicizia profonda fin dall’adolescenza. Entrambi avevano vissuto le prime crisi, ipotizzato il suicidio come ogni buon adolescente, scritto poesie, letto Benoit Malon, che impressionò un’intera generazione col libro sulla disfatta della Comune parigina. Erano entrambi affetti da qualche forma di nevrosi, e se lo confidarono. E quando Turati sarà in carcere, dopo il 1898, Anna Kuliscioff la sua compagna, confesserà a Prampolini in una toccante lettera le sue preoccupazioni per lo stato dei nervi di Filippo. Prampolini, che soffriva di una sorta di nevrosi ansiosa da responsabilità invece sopportò assai bene il carcere. E lo confessò “Decisamente ho sbagliato secolo e se fossi nato due o trecent’anni prima sarei stato un perfetto certosino. Lo sapevo, del resto (…), contribuisce a rendermi più che sopportabile questo ambiente una malattia morale che può bensì tormentarmi quando sono libero, ma qui è costretta a dormire. E’ una malattia della responsabilità. Fuori io non sono mai contento di me, sono continuamente torturato dal pensiero di non fare abbastanza, di essere troppo inferiore al mio compito, di essere buono a nulla. Qui, invece, queste malinconie (…) non hanno ragione d’essere, perchè ogni responsabilità è tolta dalle mie spalle e il dovere (mangiare, bere, dormire) è tale che sono ben certo di saperlo fare inappuntabilmente”. Prampolini, al congresso di Imola del 1902, quando sorse la corrente dei sindacalisti rivoluzionari, fu con Turati e coi riformisti che avevano aperto un credito coi liberali ad inizio secolo e venivano accusati dai rivoluzionari di ministerialismo. Fu coi riformisti, in minoranza, e venne duramente contestato e attaccò da par suo Labriola e i suoi definiti “rivoluzionisti”, mentre il loro giornale “L’avanguardia” veniva definita “La retroguardia”. I rivoluzionari alla Labriola attaccarono duramente proprio il socialismo reggiano, Prampolini come un sorta di santone e il suo sistema come quello di una democrazia cristiana. E in effetti quel Labriola, Arturo, da non confonderlo con Antonio, che poi scoprirà, oltre a quella di George Sorel e del suo sciopero generale taumaturgico, molte altre ispirazioni, compresa quella fascista negli anni trenta, vedeva nel socialismo reggiano la sua alternativa. Anziché l’insurrezionalismo più spesso parolaio che pratico, il riformismo gradualista. E il socialismo come evoluzione, come conquista quotidiana e come costruzione altrettanto quotidiana di una società più giusta. E’ vero che nello sfondo restava, lo scrisse Prampolini nella manchette della sua Giustizia, l’idea di una società in cui i mezzi di produzione sarebbero stati collettivi. Ma quest’ultima teoria, che certo rappresenta l’aspetto meno moderno della sua elaborazione, veniva collocato in un tempo remoto e appariva tutto sommato sfuocata. E questo nella consapevolezza che sfamare e migliorare le condizioni di vita fosse più importante che promettere un sol dell’avvenire domani, assai più appetitoso di un pezzo di pane solo per chi mangiava anche il companatico. Questa costruzione vacillò a fronte delle infatuazioni nazionalistiche e poi del bolscevismo e del primo fascismo. Anzi prima il suo sistema vacillò e poi si sfaldò, ma solo politicamente. Cioè, e questo e l’aspetto più interessante, si sciolse d’improvviso il movimento politico, ma restò il movimento economico, che venne ereditato (parlo delle cooperative, dei sindacati, delle aziende municipalizzate, del ricco tessuto associazionistico reggiano) da altre egemonie politiche, prima quella fascista e poi, nel dopoguerra, quella comunista. Ed entrambe ne risentiranno assumendo caratteri particolari. Prampolini difese la sua impostazione riformista e non violenta contestando il bellicismo imperante, perfino con un’ortodossia eccessiva (si rifiutò di celebrare in Consiglio comunale i morti in guerra per non legittimare la guerra). Il nuovo nazionalismo gli sottrasse alcuni amici e vecchi compagni che alla grande guerra avevano dovuto addirittura sacrificare i figli. Il nuovo dramma aprì nuove divisioni. E Pietro Petrazzani, il socialista che si battè per la municipalizzazione del pane, sarà poi il primo sindaco fascista di Reggio nel 1922. Prampolini lo aveva teorizzato con la solita efficacia. “Non dico che a fronte della guerra non bisogna versare il proprio sangue, il problema è che ci è richiesto di versare quello degli altri”, precisava. E poi, a fronte del bolscevismo e della dittatura del proletariato, spiegò: “Non può esistere la dittatura di una maggioranza e se il proletariato è maggioranza può governare con la democrazia”. Paragonò Lenin a Robespierre. Contestò il comunismo e venne contestato da un intellettuale coraggioso come Antonio Gramsci che volle definire i socialisti reggiani “degli utili idioti”. Nel dopoguerra i socialisti si divisero. Massimalisti, riformisti, comunisti puri. Ma a Reggio, dopo una breve parentesi nel 1919 quando i massimalisti Piccinini e Simonini misero clamorosamente in minoranza Prampolini e i suoi, i socialisti restarono in maggioranza sulle posizioni di Prampolini. Prampolini venne espulso dal Psi assieme a Turati e ai riformisti per cedere ai dictat di Lenin e ricostruire l’unità tra comunisti e massimalisti. Con Turati, Treves, Modigliani, D’Aragona, fondò il Psu e primo segretario ne fu Giacomo Matteotti. Ma dopo le leggi speciali Prampolini scelse di appartarsi e ripiegare su Milano, stanco e deluso. Forse, come spesso capita in politica, anche lasciato solo dagli amici. D’altronde il suo riformismo aveva bisogno della democrazia per svilupparsi. Senza democrazia poteva essere solo una dependance del regime. A Milano Prampolini fu costretto, per mantenere anche la sorella Lia e la figlia Pierina, a svolgere le funzioni di contabile e di commesso in un negozio di anticaglie del deputato piacentino Nino Mazzoni. Morì di cancro alla gola il 31 luglio del 1930. Prampolini scompariva da sconfitto, con una nuova ideologia che aveva trionfato ed instaurato poi un regime, esaltato anche da una parte di chi un tempo gli era stato compagno.

Per molti anni, nel secondo dopoguerra, la sconfitta riformista, che poi sconfitta non è stata perchè Turati e suoi erano minoranza nel Psi e dallo stesso Psi furono espulsi proprio perchè intendevano sbarrare la strada al fascismo promuovendo un governo democratico coi popolari di Sturzo, e pur tuttavia la presunta sconfitta dei riformisti venne sbandierata come un pretesto per affermare una sorta di loro minorità, legittimando così la successiva egemonia comunista che si consolidò durante le resistenza. Poi anche questa tendenza politica ha dovuto fare i conti con il suo fallimento ed ha sbattuto la testa contro il muro. Oggi anche coloro che in buona fede hanno creduto a tanti altri miti (e non mi riferisco a un partito, ma a una tendenza politica presente in tutti i partiti della sinistra compreso il Psi almeno fino al 1956) guardano con diverso atteggiamento alla storia di Prampolini e del suo riformismo. Prima c’era rispetto, a Prampolini veniva riservato l’onore delle armi, lo si definiva maestro, lo fece anche Togliatti nel suo discorso del settembre del 1946, ma altre erano le fonti di ispirazione politica. Oggi si può ben dire che Prampolini e il suo riformismo siano l’unico comun denominatore che tiene insieme queste storie. Per questo a Prampolini esponenti di diversa appartenenza partitica hanno voluto dedicare a Reggio un nuovo Centro d’iniziativa politico culturale. Uomini come Antonio Bernardi, Vincenzo Bertolini, Antonio Soda, lo stesso Giuseppe Amadei che fu discepolo di Simonini che a sua volta era stato discepolo di Prampolini, assieme ad altri, compreso chi vi parla, ne sono i fondatori. D’altronde credo che la politica abbia bisogno oggi di forti stimoli ideali. Possiamo anche vivere in partiti senza storia e senza identità. Forse è meglio vivere in storie e identità anche se si rischia di restare senza un partito. E celebrare Prampolini con le parole usate da Zibordi al suo funerale: “Io non vi ringrazio di essere intervenuti. Voi foste favoriti dalla sorte in questo onore, di cui vi ricorderete per tutta la vita, di avere condotto al sepolcro Camillo Prampolini”. Non so se per tutta la vita ci ricorderemo di questa cerimonia per celebrare il centocinquantesimo anniversario della sua nascita. Io mi auguro di sì”.

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