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E il liberale Locke cambiò il mondo…

Giù il cappello di fronte a Giovannino Locke, signori. Giù il cappello perchè questo qui è stato un signor filosofo, un antesignano del liberalismo storico, l’inventore delle divisone dei poteri che regge tuttora. Uno che ha saputo vedere quattrocento anni in avanti. Riepiloghiamo il contesto. Dopo Cromwell gli inglesi capirono che era assai meglio la monarchia. Come gli italiani che, se potessero, si riaffiderebbero volentieri ad Andreotti. La testa di re Carlo I poteva bastare. Così come per gli italiani può bastare quella di Craxi. Ma lì a Londra tornarono gli Stuart e poi, finito il sistema assolutistico, si verificò la rivoluzione liberale del 1688 che non fu seguita da nessun’altra in Inghilterra, come dire che poteva bastare. Locke vive in quel contesto ed è quasi obbligato ad interessarsi di filosofia politica. Certo non solo. Dicono che non sapendo più di cosa discorrere la sera con gli amici di fronte al fuoco e davanti a un bicchiere di vino rosso, anche perchè per loro fortuna non c’era ancora la televisione, Locke propose di prendere in considerazione nelle discussioni solo le cose certe e cominciò allora a parlare dell’intelletto, cioè della nostra capacità di produrre pensiero. Che era la sola cosa certa anche per lui, come per Cartesio. Se l’allegra congrega avesse visto “Il grande fratello” non sarebbe arrivata a questa conclusione. Solo che lui, Locke Giovannino, da buon empirista, riteneva che tutto fosse verificabile. Come i quiz di Mike Bongiorno. Al contrario di Cartesio pensava che non esistessero idee innate, che nessun essere umano nascesse con convinzioni già prestabile. Ho già ricordato mia zia che diceva, quando io la contestavo politicamente, piegando la testa: “Me ag’ho la mè idea”. Idea innata, che so forse trasmessale dai genitori, come quelle d’un tempo. Ma i filosofi non pensavano al Pci, ma, che so, all’idea di Dio, dell’infinito, della non contraddizione. Non aveva tutti i torti Giovanni Locke. Sembrava assai azzardato ritenere che un lattante avesse già letto (forse come feto) Aristotele. Così Locke, un inglese nato nel 1632,  si mise alla ricerca di diverse qualità di idee in parte concordando e in parte dissentendo da Cartesio. Poi la rivoluzione liberale, e il ritorno di Locke in Inghilterra dopo la sua permanenza in Olanda durante l’assolutismo, a seguito della fuga del suo protettore Lord Shaftesbury, del quale era divenuto medico (anche senza essere laureato, un po’ come Di Pietro che dicono sia diventato magistrato senza titolo di studio). E non si sa se fu più quella rivoluzione a influenzare Giovannino o lui a influenzare quella rivoluzione o almeno i suoi futuri sviluppi. Diciamo che Locke s’occupò dell’intelletto fino alla rivoluzione liberale (anche perché faceva fatica ad occuparsi d’altro) e poi s’occupò di politica, sempre con intelletto, dopo la rivoluzione. E scrisse i suoi trattati e i suoi saggi sul governo e le istituzioni. Nel Saggio sull’intelletto umano si negano le idee innate di Cartesio, poi si distinguono tanti tipi di idee. L’intelletto umano ne fornisce di tutti i colori. Ci possono essere idee di sensazione (che provengono dall’esterno) e idee di riflessione (che invece sono elaborate dall’interno). Poi queste ultime vengono anche suddivise in idee semplici (possono essere primarie secondarie) e concomitanti. Naturalmente questa complessa catalogazione delle idee valeva per il suo tempo. Oggi sarebbe tutto molto più semplice. Idee zero. E il vero rapporto, semmai, non dovrebbe essere quello dell’intelletto umano con la realtà esterna, ma quello del nostro io con la televisione. Tema, uno dei pochi, che Locke non riuscì ad anticipare. Locke si distingue ancora da Cartesio sulla ragione: “Vuoi proprio che Dio abbia fatto gli uomini a due gambe per permettere ad Aristotele di renderli razionali?”, si chiedeva. Per Locke la ragione si divide in due attività: la ricerca delle cose che sappiamo con certezza e la ricerca degli enunciati che è saggio accettare, anche se a loro supporto c’è solo la probabilità. E quest’ultima si basa sulla nostra esperienza e sull’esperienza altrui. Noi possiamo pensare che scalare l’Everest sia complicato, ad esempio. E lo sappiamo con certezza perchè conosciamo quanto è alto e il freddo e il ghiaccio che vi sono. Ma possiamo pensare che il fascismo sia stata una dittatura negativa dall’esperienza dei nostri genitori e sappiamo invece che la seconda Repubblica italiana fa schifo dalla nostra stessa esperienza. Locke trattò anche degli universali con una versione nominalista. Cosa vuol dire “uomo”, se sono tanti e tutti diversi? Esistono solo i particolari, cioè quell’uomo e quell’altro. E ancora sulla dottrina etica si chiese: “Le cose sono buone o cattive perché?”. Solo quelle che procurano dolore sono cattive, mentre quelle che danno piacere sono buone. Naturalmente il concetto di piacere e di dolore doveva essere meglio specificato. La felicità per Locke è il massimo piacere e la necessità di ricercare la felicità è il fondamento di ogni libertà. Il piacere raggiunto attraverso il vizio è sbagliato e le passioni non vanno sempre assecondate. Vabbè, niente di nuovo sotto il sole? Pensiamo, però, un momento a questa frase secondo la quale la ricerca della felicità è il fondamento di ogni libertà. Ha un valore rivoluzionario. Se paragonata alla scolastica ha un valore estremo. Ogni individuo non deve comprimere la sua libertà per raggiungere la felicità, non deve sacrificarla e immolarla a Dio. Anzi, diremmo oggi, deve esprimere compiutamente se stesso in piena autonomia. Locke era anche un pedagogo e sapeva insegnare i suoi metodi e arrivò molto avanti, quasi a Malaguzzi di Reggio Emilia, e al suo metodo delle scuole più belle del mondo. Ritenne che nell’educazione del fanciullo dovessero essere contenuti gli aspetti più propriamente repressivi, quali le punizioni corporali, mentre andasse incoraggiata l’espressione diretta e spontanea dell’attività conoscitiva. Siamo nel Seicento, ragazzi eh, direbbe un segretario di un partito che esiste solo in Italia e in America, non dimentichiamolo. Ma il messaggio che più d’ogni altro avrà delle conseguenze nel pensiero di Locke è certamente la sua elaborazione politica. E pensare che all’inizio aveva assunto l’assolutismo di Hobbes come base delle sue convinzioni. Poi lo rigettò contestando la stessa certezza di Hobbes relativa la fatto che in natura ci fosse quel “bellum omnium contra omnes” che faceva del consesso degli uomini una congregazione di irriducibili delinquenti che solo un sovrano assoluto e impietoso poteva condurre a ragione. No, per Locke alla base di tutto c’è l’uomo come essere sociale, capace di convivere con gli altri attraverso una convenzione o contratto (quel che poi Rousseau farà suo). Così discettò dello stato di natura dove tutti gli uomini possono essere uguali e godere di una libertà senza limiti. Con l’introduzione del denaro e degli scambi commerciali, tuttavia, l’uomo tende ad accumulare le sue proprietà e a difenderle, escludendone gli altri dal possesso. Sorge a questo punto l’esigenza di uno stato, di una organizzazione politica che assicuri la pace fra gli uomini. Dunque è Locke il primo che fa discendere dall’economia il pensiero politico. Mai nessuno lo aveva fatto prima di lui. E arrivò a contestare un diritto che tutti avevano comunemente accettato: e cioè il diritto dell’ereditarietà. Se Hobbes riteneva che gli uomini dovessero cedere al corpo politico tutti i loro diritti, Locke ritenne dovessero cederne uno solo: quello di farsi giustizia da soli. E’ il contrario. L’assolutista Hobbes riteneva che i sudditi dovessero tenersi per loro solo il diritto alla vita, Locke invece che dovessero tenerseli tutti tranne quello di vendicarsi da soli. Berlusconi in cuor suo vorrebbe tenersi invece solo quest’ultimo. Per il resto lo Stato doveva tutelare i diritti naturali e cioè la vita, la libertà, l’uguaglianza civile e appunto la proprietà, anche se su quest’ultima questione Locke introdusse la dottrina del valore-lavoro che poi sarà ripresa da Marx. Questo comportava l’istituzione di nuove figure compito delle quali era quello di far rispettare questa disposizione: i magistrati, i tribunali e gli uomini di legge. E se però i magistrati fossero toghe rosse? Questo è un punto debole del pensiero di Locke, che non aveva previsto Berlusconi e la Boccassini. Riconosciamo tuttavia a Locke di avere anticipato e disegnato la divisione di poteri della quale tratteranno poi le costituzioni dei secoli successivi. Il potere supremo è il potere legislativo che è supremo, non perché senza limiti, ma perché è quello posto al vertice della piramide dei poteri, il più importante. È il potere di predisporre ed emanare le leggi e appartiene al popolo che lo conferisce per delega ad una figura preposta ad adempierlo. Subordinato al potere legislativo, c’è il potere esecutivo che appartiene al sovrano e consiste nel far eseguire le leggi. Successivamente Locke individua altri due poteri ascrivibili ai precedenti. Il primo è il potere giudiziario, che rientra nel potere legislativo ed è preposto a far rispettare la legge, la quale deve essere unica per tutti e deve far sì che tutti siano uguali di fronte ad essa, e che a sua volta esplica due funzioni: quella di emanare leggi e quella di farle rispettare. La subordinazione del potere giudiziario a quello legislativo oggi in Italia farebbe scandalo. Visto che fa scandalo solo ipotizzare la separazione delle carriere dei magistrati e del Csm. Il secondo è il potere federativo, che non c’entra col federalismo, cui sir Humbert Boss del Galles lo avrebbe costretto. Esso deriva dal latino foedus, patto, rientra nel potere esecutivo e prevede la possibilità di muovere guerra verso altri Stati, di stipulare accordi di pace, di intessere alleanze con tutte quelle comunità che sono fuori dallo Stato. Se tutto questo non si fosse verificato il popolo aveva il sacrosanto diritto di resistenza contro un governo ingiusto. Liberale e dunque laico, Locke ritenne che la religione non c’entrasse nulla con lo Stato, ma tuttavia auspicò che alcuni punti o dogmi delle religioni dovessero ritenersi validi anche in natura per tutti. Egli auspicò dunque una religione dell’umanità, unica e positiva, tollerante e rispettosa. Ma non accomunava a questa opzione di unità la religione cattolica, perché confessionale, imposta da una gerarchia prestabilita, e neppure l’ateismo perchè non affidabile dal punto di vista morale. Locke anticipa e detta le regole dei futuri stati. La costituzione britannica è ispirata alle sue idee e la Francia le adottò nel 1871. La sua influenza in Francia la si deve a Voltaire che passò del tempo in Inghilterra. Giù il cappello, dunque, di fronte a Locke che aveva le sue contraddizioni, certamente. Dicono che mentre predicasse l’uguaglianza facesse anche un po’ di denaro con le azioni dell’African Royal Company che li guadagnava con la tratta degli schiavi. Contraddizione moderna? Un po’ come i preti che predicano bene e razzolano male? Tuttavia l’influsso positivo di Locke fu enorme e non proporzionale al suo discutibile comportamento, che vuol dire, a volte, che ciò che si dice può superare di gran lunga quel che si fa. Almeno nella filosofia…