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L’intervento di Del Bue alla Camera nel convegno su Franco Boiardi

Franco Boiardi era un uomo mite e colto. Quando lo vedevo, sempre accompagnato dalla moglie per le vie di Reggio, mio padre mi diceva: “Quello è Boiardi, un uomo di cultura”. Credo che quest’ultimo vocabolo io l’abbia poi, coscientemente o no, sempre rapportato a lui, che dell’intellettuale aveva non solo l’estro, ma anche le phisique du role. E’ giusto che la Camera lo ricordi oggi, in queste mura che lo videro protagonista, anche se per un breve periodo, e cioè dal novembre del 1968 alla primavera del 1972. In Boiardi sono convissute costantemente tre dimensioni: quella dell’uomo politico, quella dell’uomo di cultura e quella dell’amministratore. Mi è stato chiesto di occuparmi di quest’ultima. E lo farò non senza prima ricordare che Boiardi è stato una personalità politica anche di dimensione nazionale (ricordo a tale proposito la sua candidatura a segretario nazionale del Movimento giovanile della Dc, bloccata da Fanfani per ragioni politiche al congresso del 1955, così come si evince anche da una affettuosa lettera di Beppe Chiarante inviata al convegno su Boiardi promosso lo scorso anno a  Reggio Emilia, nonchè la sua collaborazione alla rivista di Lelio Basso “Problemi del socialismo”, dopo la sua adesione al Psi nel 1958. Ma, soprattutto, Boiardi fu uno storico, uno storico della filosofia (come non ricordare il suo possente lavoro della Storia delle dottrine politiche), uno storico del Parlamento (ricordo da vicino tutte le traversie e le vicissitudini assieme al suo editore Buccomino della Storia del Parlamento alla quale io stesso collaborai con un inserto su Alberto Simonini), uno storico e ricercatore e rivalutatore di personalità reggiane non sufficientemente riconosciute  e valorizzate (quella di Meuccio Ruini, più volte ministro e per alcuni giorni anche presidente del Senato, quella di Gian Luigi Basetti, deputato radicale della fine dell’Ottocento, colui che più d’ogni altro seppe combattere una battaglia vinta sull’odiosa tassa del macinato). E vorrei preventivamente ricordare, certo a onore dei tempi e suo in particolare, che quando Boiardi decise di uscire dalla Dc (per le due note vicende della partecipazione alla conferenza di Helsinki dei partigiani della pace e per il giudizio sulla strage di Colombaia era solo stato sospeso) lo fece non con una dichiarazione, né con un semplice documento, ma pubblicando un libro su Dossetti e la crisi del dossettismo. Era il 1956 e il suo ex leader, che dal 1951 s’era appartato dalla politica, aveva accettato di capeggiare la lista contraria alle sinistre e al sindaco Dozza alle elezioni comunali di Bologna, su invito pressante del cardinal Lercaro. E siamo al 1956, cioè ad una data cruciale della vita politica e amministrativa di Boiardi, perchè è nel 1956 che Boiardi decide di appoggiare le sinistre alla elezioni amministrative di Reggio Emilia presentandosi ad una conferenza indetta al teatro Municipale alla quale partecipò anche il sindaco della città Cesare Campioli. In quell’occasione Boiardi non si presentò candidato né alle comunali né alle provinciali. Aveva scelto un’opzione politica, ma non un partito. La sua relativa indipendenza, e forse anche insofferenza, per i partiti sarà una sua costante, e lo vedrà spesso orfano ed esule nel sistema politico. Spesso anzi isolato, appartato, perfino emarginato costantemente dalla politica, che riconosceva in lui un’insopportabile diversità. Questa sua indipendenza Boiardi la mostra subito, nello stesso 1956, quando prende posizione apertamente contro l’invasione sovietica in Ungheria partecipando a diversi convegni. Un dato poco conosciuto: quando il circolo di cultura di Reggio (era un centro di aggregazione di uomini di sinistra, prevalentemente ma non esclusivamente comunista) decise di invitare l’eretico Antonio Giolitti,  che poi romperà col Pci e aderirà al Psi, uno dei pochi dirigenti che prese posizione contro l’Urss, e poichè il Pci reggiano intervenne pesantemente chiudendo il circolo, fu Boiardi assieme a pochi altri, credo anche all’avvocato Corrado Costa, molto attivo in quell’anno, a fondare un circolo Calamandrei e a chiamare a Reggio per una conferenza lo stesso Giolitti alla sala Verdi. Boiardi aderì ufficialmente al Psi solo due anni più tardi e venne candidato dal Psi alle elezioni del 1960, che si svolgevano, cosa singolare e che verrà ripetuta solo nel 1964, nella nebbia padana del mese di novembre, cioè a pochi mesi di distanza dai terribili fatti del caldo luglio reggiano. Boiardi venne eletto consigliere comunale e poi assessore alla cultura e all’istruzione, e dunque ebbe il compito di sovraintendere a quei servizi sociali per bambini che caratterizzarono il comune di Reggio a partire proprio da quegli anni. Se volessi ricordare solo due dati salienti della sua attività amministrativa in quei quattro anni, metterei in evidenza proprio la sua attenzione, curiosità e fantasia con le quali egli pilotò e seguì l’esperimento della nascita delle scuole dell’infanzia e poi la sua sensibilità e preparazione culturale con la quale si atteggiò a fronte dell’attività del nostro teatro Municipale. Proprio nel novembre del 1963 viene inaugurata la prima scuola dell’infanzia di Reggio. E’ la Robinson Crusoé. La sfida delle sinistre reggiane, comunisti e socialisti, era lanciata alle scuole cattoliche e private che monopolizzavano il tessuto dell’assistenza ai bambini anche a Reggio. La scommessa era quella di marcare la presenza del Comune in un settore già parzialmente esplorato dai vecchi socialisti nel periodo prefascista, che, con Giuseppe Soglia, avevano saputo promuovere un sistema di scuole elementari all’avanguardia e anche organizzare alcune scuole materne nelle frazioni cittadine. Allora, però, l’obiettivo era quello di edificare scuole materne, cioè scuole con il compito di assistere i bambini delle mamme che lavoravano, e non a caso esse iniziarono a nascere in quei luoghi in cui la manodopera femminile era alta. Nel 1963, invece, il Comune di Reggio promuove la prima di una lunga serie di scuole dell’infanzia con il proposito di creare anche un nuovo modello di educazione. Forse anche per questo si sceglierà di continuare nella forma della scuola comunale e non si aderirà a quella della scuola statale, istituto che era stato proposto dai socialisti al governo Fanfani, che provocherà la crisi del secondo ministero Moro (la prima crisi era stata provocata dalla votazione sul finanziamento alle scuole private) e che diverrà legge solo nel 1967. Il progettista di questo modello fu il comunista Loris Malaguzzi, che già nell’immediato dopoguerra aveva promosso qualche scuola materna spontaneamente, senza finanziamenti statali o comunali. Venne, ad esempio, creata la scuola materna “XXV aprile”, con l’aiuto del Comitato di liberazione nazionale e  del movimento cooperativo. La Robinson Crusoé venne inaugurata il 5 novembre del 1963. Da allora si costruì il sistema. Le scuole dell’infanzia crebbero fino a raggiungere il numero attuale di 22. Dal 1970 prese piede anche la creazione di asili nido, per bambini appena nati. E questo sistema di educazione per l’infanzia diverrà il fiore all’occhiello di Reggio, famoso in tutto il mondo e oggi armonizzato, pubblicizzato e progettato in Italia e nel mondo grazie a Reggio children, oggi neo fondazione. Il teatro di Reggio era già famoso almeno in Italia. Il Premio Peri era già a attivo a partire dal 1955 quando nella versione di Premio Avanti per giovani cantanti lirici esso prese piede al festival nazionale dell’Avanti che si svolse nei campi attigui la piscina comunale di via Melato, sorta nell’estate del 1950. Proprio nel 1961 il premio, che aveva il suo perno in Gigetto Reverberi, grande organizzatore di cultura col fiuto magico dell’autodidatta teatrale, aveva lanciato il giovane tenore Luciano Pavarotti che debuttò in Bohème nell’aprile con l’opera che lo rese poi famoso nel mondo intero. Un premio che lancerà le voci migliori del panorama lirico italiano: oltre a Pavarotti, anche Enzo Dara, Mirella Freni, Raina Kabaivanska, Fiorenza Cossotto. Il  premo Peri non era l’unica creazione fertile del tessuto teatrale reggiano. C’era anche il premio Maria Melato per giovani compagnie di prosa dedicato alla grande attrice reggiana morta nel 1950, l’erede della Duse, come qualcuno ebbe l’ardire di definirla, e che nel 1927 aveva commosso anche Gabriele D’Annunzio interpretando al suo Vittoriale “La figlia di Iorio”. Boiardi diede anche un tocco di modernità al teatro. Sono di quegli anni le marcate sensibilità al nuovo, con la scoperta di nuove opere e di nuovi autori, e anche di regie innovative, le prime coraggiose versioni registiche applicate all’opera lirica inaugurate dalla famosa Traviata di Visconti del 1955: come quelle di Zeffirelli nella Turandot del Municipale del 1961 e quella di Enrico Becher nell’Otello del 1964, che verrà ripetuta anche nel memorabile Rigoletto del 1965. Un tocco di moderna qualità nel rispetto della tradizione. Senza strappi, fughe in avanti, rinunce e scomuniche del passato. Come del resto un uomo di cultura doveva rapportarsi a quel teatro, a quel monumento di storia, a quei valori che si trasferivano di generazione in generazione. Esaltando nella danza Martha Graam senza rinunciare al Bolscioi. Cercando nella prosa Dario Fo e anche, più avanti, il Living, senza sfrattare Pirandello. Esplorando la musica contemporanea, senza ignorare Verdi e Puccini. Nel 1964 Boiardi passa dalla cultura all’urbanistica. Dal gennaio di quell’anno si era formato il Psiup al quale Boiardi aveva aderito assieme al suo punto di riferimento nazionale Lelio Basso. Nel dicembre del 1963 si era formato il primo governo di centro-sinistra con la partecipazione diretta del Psi e 25 deputati e 13 senatori avevano deciso di non votare la fiducia al governo, ponendosi così contro la disciplina di partito. Gli scissionisti avevano poi fondato il nuovo partito chiamandolo Psiup, come il partito socialista unico dell’immediato dopoguerra e il Psiup si era presentato per la prima volta alle elezioni nel novembre del 1964. In quell’occasione Boiardi venne rieletto consigliere comunale per il suo partito assieme ad Ercole Pisi. Proprio in quegli anni venne approvato il nuovo piano regolatore di Reggio Emilia, frutto di un lungo parto che aveva coinvolto anche gli assessori precedenti a cominciare da Antonio Pastorini. Reggio Emilia nel 1964 aveva conosciuto un solo piano regolatore approvato, quello divenuto legge poco prima dell’esplosione della seconda guerra mondiale e che portava il nome di Getullio Artoni. Il piano Artoni venne infatti approvato con legge dello stato il 2 aprile del 1940. Reggio aveva attraversato nel dopoguerra oltre alla fase dell’incremento edilizio frutto del miglioramento del tenore di vita dei suoi abitanti, ma che produceva anche speculazioni sulle aree edificabili che permettevano alti profitti assieme a un disordinato sviluppo urbanistico nelle grandi come nelle piccole città italiane, anche il periodo del culto di una falsa modernità, che aveva abbagliato molti. L’isolato San Rocco in luogo del settecentesco Portico della trinità e il nuovo cosiddetto grattacielo in luogo della storica gabella erano monumenti sorti propri alla luce di quel distorto principio. Lo sviluppo quantitativo e la mancanza di sensibilità per il centro storico, male purtroppo non soltanto di quell’epoca, caratterizzarono quegli anni. Da questo bisogno di regolare lo sviluppo ponendo anche freni e di porre anche la qualità degli interventi al centro di tutto, nacque il secondo piano regolatore della città, redatto a cominciare dalla fine degli anni cinquanta, dal progettista milanese Franco Albini, che già aveva avuto l’incarico di una revisione del piano Artoni nel settembre del 1947. Il piano Albini peccò forse di ideologismo, di cultura del vincolo, di proibizionismo e di lotta all’industrializzazione. Si voleva far intendere che “pubblico è sempre bello”, che era meglio costruire stradine in periferia che non ponti e stradoni. Si voleva giustamente porre un freno. Si pensò a una nuova viabilità. Si riprese il disegno di attraversamento urbano da nord a sud attraverso il Crsotolo, si lanciò l’innovativa idea dei direzionali. L’approvazione del piano Albini ebbe iter travagliato. Già nel 1958 Albini ebbe l’incarico e redasse il piano che venne poi rimandato indietro dal ministero. Nel1961 seconda prova e stesso esito. Solo nel 1967, con Boiardi assessore all’urbanistica, si ebbe il parto vero. Assieme ad Albini collaborarono alla stesura del piano anche Giuseppe Campos Venuti e Osvaldo Piacentini. Nel 1968 Boiardi venne poi eletto deputato, a seguito della morte del deputato modenese Umberto Zurlini. Alle elezioni di primavera s’era piazzato infatti primo dei non eletti. E della sua stagione parlamentare 1968-1972 altri parleranno. Quando nel 1972 il Psiup rimase senza eletti e decise lo scioglimento, alcuni se ne andarono nel Pci altri, una minoranza, rientrarono nel Psi. E ci fu anche qualcuno che si schierò per la continuità  del partito fondando poi il Pdup col gruppo del Manifesto. Boiardi entrò nel Pci e  assunse il delicato incarico di presidente dell’Arcispedale Santa Maria Nuova. Erano gli anni della contestazione dei primari, della teoria egualitaristica “primario e infermiere per me pari sono”, dell’occupazione del Consorzio socio sanitario dove imperava Livio Montanari, nella Reggio all’avanguardia di Giovanni Jervis. Boiardi ebbe il coraggio di sfidare le mode di quegli anni, si mise di traverso e si schierò apertamente contro quelle degenerazioni ideologiche da maoismo al lambrusco. E pensò alla qualità. E assunse primari dotati di grande capacità stanandoli in giro per l’Italia, pensò a settori efficienti, si preoccupò insomma di quel che la gente chiede a un ospedale: non certo l’ideologia e la rivoluzione, ma la cura migliore da un medico e le mani migliori da un chirurgo. Non so quanto quello sfidare le mode abbia concorso poi alla sua emarginazione successiva, che lo spinse nei prima anni novanta anche a chiedere asilo a quella Rete di Leoluca Orlando alla quale mi pare che la sua sensibilità fosse davvero piuttosto estranea. Perché Boiardi attraversò gli anni ottanta e novanta in solitudine. Come se la città lo avesse “in gran dispitto”, per recuperare il Farinata degli Uberti di Dante. Se mi è consentito ricordarlo vorrei solo precisare che chi vi parla lo invitò nel 1982 alla conferenza programmatica di Rimini del Psi, alla quale egli partecipò, e che egli divenne consigliere dei Teatri (io ne ero divenuto presidente) e consigliere del Coreco, su designazione socialista. Mi sembrava inconcepibile che un’intelligenza come la sua venisse ignorata da una città che aveva bisogno d’intelligenza, di creatività, di cultura e che si dovesse dar ragione a quel geniale assunto di Corrado Costa, secondo il quale Reggio Emilia era nel frattempo divenuta la capitale della danza, perché la danza è l’unica arte muta. Resta dunque, per finire, un interrogativo senza risposta. In che misura queste nostre celebrazioni, questi nostri sinceri ricordi di questo nostro illustre concittadino possono rimediare e sanare quella ferita ancora aperta che in vita gli è stata inferta dalla sua città con la sua emarginazione politica, amministrativa e culturale. In genere si dice che tutti dopo morti diventano migliori. Ebbene io penso che Boiardi sia stato un grande uomo di cultura, un valente uomo politico, un eccellente amministratore da vivo e che purtroppo in tanti se ne siano accorti solo dopo la sua morte.