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E Violetta si dimenticò di uscire nella Traviata della Scala

9 Dicembre 2013 1.080 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Dispiace che almeno fino a domenica nessuno l’abbia scritto. Ma Violetta ad inizio della festa di Flora, scena dodicesima, si dimentica di entrare a braccetto col barone. E l’orchestra suona a vuoto mentre il canto salta la bellezza di sei battute, due di Violetta, due di Flora e due del barone. Tanto che si spengono le luci, si ha quasi la sensazione che l’opera venga sospesa. Qualcuno ha pensato che anche questo fosse una sorta di sortilegio del diabolico regista russo Tcherniakov. E invece no, una dimenticanza da teatro di Pomponesco, non da prima della Scala ove pullulano fior fior di melomani che di Traviata ne hanno ascoltate a bizzeffe e tutto sanno dei gorgheggi di Violetta e della cabaletta di Germont. Eppure niente, pare che nessuno se ne sia accorto. Tanto che il soprano tedesco Diana Damrau è stata la più applaudita. Intendiamoci. Bravissima sia nel registro acuto che richiede il primo atto, sia in quello drammatico che pretendono gli altri due. Possiamo solo addurre un’improbabile giustificazione. Che si sia scelta una nuove partitura che non prevede quelle sei battute. Impossibile, però, che l’orchestra le abbia suonate intatte e solitariamente. Andiamo oltre. E dopo avere scritto bene della Damrau, forse solo un po’ indecisa a tenere il mi bemolle del finale del primo quadro (ma perché continuare, maestro Gatti, con quella nota acuta che non c’è in partitura, che Muti aveva giustamente tagliato e che nemmeno la Callas riusciva a intonare perfettamente, solo la Scotto ne era magistrale esecutrice), bisogna parlare anche degli altri. A cominciare da Daniele Gatti che a me è piaciuto anche coi suoi tradizionali tempi lenti, con un’orchestra perfetta che ha scandito ogni movimento di scena con un accompagnamento adeguato, ora soffice, ora grave, ma sempre puntualmente colorato. E così il coro della Scala che in Traviata è protagonista nel primo e nel penultimo quadro, nelle due feste di Violetta e di Flora. Bene anche il tenore Piotr Beczala tranne nelle cabelletta “Oh mio rimorso, infamia”, dove era costretto a trotterellare come un burattino. E dove s’è fatto sgraziato anche vocalmente. Per nulla sufficiente invece il Germont di Zelijko Lucic, banale, e anche stonato nei registi acuti, tanto da esserne probabilmente cosciente e da spingere quasi mai. E adesso la regia. Tcherniakov è stato il più contestato, fischiato e buato da tutto il pubblico. Non sono d’accordo con il giudizio del pubblico scaligero e con quasi tutta la critica. Oddio, molte trovate mi sono sembrate discutibili e qualcuna anche di pessimo gusto come la scena di Alfredo infuriato per la lettera di Violetta che di scatto si mette a tagliare zucchine e carote. Era proprio necessario? E soprattuto quel finale con Violetta che, più che destinata a morire presto perché “la tisi non le accorda che poche ore”, sembra destinata al body building con le guance rosse e il sorriso sulle labbra, che si agita in piedi come in una discoteca, s’affanna sorridente e sempre ironica, ma dove non si respira mai la tragedia implacabile della morte. E si può perfino fare a meno del letto e morire seduti. Però mi è piaciuta la coerenza interpretativa dei personaggi. Traviata è forse l’opera verdiana, anche più del Macbeth, che si presta a un’introspezione psicologica dei protagonisti. Che sono tutti e tre contraddittori. Violetta, perché da demi mondaine, una sorta di escort del duemila, si innamora e si sacrifica, quasi in segno di redenzione, ma soprattuto perché cosciente di dover morire. E questa consapevolezza è sempre il motivo delle sue scelte. La scelta di amare, la scelta di rinunciare all’amore, la scelta di perdonare chi l’offende gettandole in spregio i soldi perché “questa donna pagata io l’ho”. Anche Alfredo é personaggio ambiguo. Innamorato, diremmo oggi cotto, in preda a una vera e propria sbandata, è subalterno a papà e deve avere già un pò di anni. Crede a tutto quello che viene scritto e detto da lei. dal babbo, dal coro, dal barone. Bamboccione, per dirla con le parole di un famoso ministro. Solo alla fine si rende conto dell’imbroglio, ma solo perché papà glielo confida. E infine il vecchio Germont, un padre ottocentesco che per proteggere l’onore della figlia distrugge la felicità del figlio. Gli toglie con un’imboscata quell’amorazzo che stava vivendo in tutta serenità. E nonostante Violetta per tre volte lo avverta della sua morte imminente, spietatamente pretende il suo sacrificio. Per poi pentirsene davanti al letto, se ci fosse, di lei. Geniale registicamente quell’Annina che alla fine li caccia tutti e due manandoli a quel paese. Geniale anche quell’idea di far cantare a Violetta “di quell’amor ch’è palpito” come presa in giro di lui. Tanto che la sua conversione all’amore appare giustamente graduale, e quasi una sfida da accettare con curiosità, un’idea nuova da spendere come finale di vita. E così condivisibile è anche l’eliminazione del balletto delle zingarelle e dei toreri, che non hanno mai avuto senso. Si tratta di due cori di amici in festa, e non della partecipazione a uno spettacolo circense. La nevrosi sovrasta ogni cosa. E la nervosi dei tre personaggi è quasi da casa di cura. Tutto annebbia e distrugge, velocemente, implacabilmente. Dispiace che questa idea di fondo, che si  corrobora nell’uso agitato delle braccia e delle mani sempre in movimento non abbia convinto, assieme all’eccessivo uso di verdura, ma i due innamorati potevano anche essere vegetariani, il pubblico e la critica.

 

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