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Quel Faust del 1963

Mio padre era allora membro della direzione teatrale che si costituì nell’anno del passaggio della gestione del teatro Municipale al Comune, cioè nel 1957. Il 1957 era l’anno del centenario della nascita del teatro, costruito dopo l’incendio che demolì quello di Cittadella, che risorse come Politeama Ariosto solo nel 1876. E nell’anno del centenario era stato allestito un signor cartellone lirico con una Bohème cantata da Ferruccio Tagliavini, che di quella messa in scena s’improvvisò anche regista, e con Nabucco, Falstaff e una memorabile Walkiria, della quale appresi a sei anni a canticchiare la famosa cavalcata. Seguivo la stagione lirica da bambino, nel palco ove troneggiavano personaggi che diedero la loro vita al teatro, quali Gigetto Garavaldi, i piu austeri Negri e Degani, il più attempato Rinaldi, l’avvocato Pagani. Ricordo perfettamente il debutto di Pavarotti nella Bohème dell’aprile del 1961, che premiava i vincitori del Concorso Peri. Ricordo Tagliavini in “Un ballo in maschera” dello stesso anno tra un sonnellino e l’altro schiacciato nel comodo e rosso divano del palco. E una Turandot dello stesso 1961 col tenore Bruno Prevedi che era influenzato e non riusciva a cantare. E a chiedere comprensione al pubblico uscì proprio mio padre sul palcoscenico. Nel 1963 si rappresenterà anche “L’amico Fritz” di Mascagni diretto da un grintossimo Zedda, che un ospite d’Oltrenza volle definire con un grido “un vero parmigiano”, suscitando ilarità e proteste nel nostro loggione. Con Aida si provarono le vocalità di un parmigiano non contestabile, e cioè Carlo Bergonzi, che Radames sarà tra i migliori al mondo. C’era stato anche Prokofiev con la sua “L’amore delle tre melaranc” e poi la mozartiana “Le nozze di Figaro”. Pochi giorni dopo era la volta del Faust di Gounod. A dirigerlo si presentò la giovanissima promessa Claudio Abbado. Magro, alto, con capelli pettinatissimi, sembrava uno studente di Oxford. Dirigeva con la bacchetta impugnata nella mano come Karajan e con larghi movimenti del braccio. Aveva solo trent’anni. Fece subito impressione per la sicurezza e l’autorevolezza. Finita la rappresentazione fummo inviati a cena a Rubiera da Arnaldo. Direttore del teatro era un grande e generoso organizzatore di cultura come Gigetto Reverberi. A cena ricordo anche Zedda, con Reverberi, mio padre, i cantanti. A un certo punto per scherzo dissero ad Abbado: “Tu saresti capace di dirigere anche la musica della pubblicità del dado Lombardi?”, che era allora famosa per lo spot su Carosello. Abbado si rifiutò con un sorriso schivo. Zedda era invece disponibile, più estroverso e allegro e improvvisammo un coro da lui diretto. Una serata di quel tipo vissuta a dodici anni non la si dimentica e ogni volta che Abbado tornava a Reggio mi tornava in mente. Claudio Abbado l’ho ascoltato mille volte. Di lui ricordo un concerto con Pollini nel nostro Municipale con musiche di Nono e di Beethoven nell’ambito di Musica e realtà, “Il Barbiere di Siviglia” del 1995, le più recenti “Così fan tutte” e “Il flauto magico”. Ma non posso dimenticare le sua meravigliosa esperienza scaligera iniziata nel 1967 e culminata con interpretazioni verdiane di grande prestigio, i suoi concerti anche a Reggio con la sua Malher orchestra e ricordarlo per quello che è stato. È cioè uno dei più grandi direttori d’orchestra del mondo, forse in assoluto tra i primissimi per ricercatezza e raffinatezza. Per capacità di leggere e di interpretare. Si è scritto che per lui tutto doveva diventare musica da camera, musica da fare insieme, una riduzione e una semplificazione meticolosa, votata alla perfezione. M’impressionò la sua simpatia e semplicità. Quando si presentò sul palco con Pollini, erano entrambi vestiti con maglioni larghi, sembravano due studenti universitari sessantottini. Poi cominciarono a suonare e il meraviglioso talento musicale prevalse su tutto.