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Il contributo di Del Bue al seminario su “Pci, cultura e servizi negli anni sessanta e settanta”

Parto dal presupposto di non essere mai stato comunista, di aver aderito al PSI proprio nel turbolento 1968, quando farlo era quasi un’eresia, di avere sposato sempre le posizioni autonomiste e riformiste e di avere anche assunto nei confronti del Pci, come è noto, posizioni spesso polemiche e a volte conflittuali. Questo non mi esime dal considerare con l’interesse e l’attenzione che merita la storia di quel grande partito così radicato in terra reggiana, soprattutto in quei due decenni, e anche di considerare con una punta di rimpianto lo slancio ideale di quel periodo, costellato di forti tensioni e di spinte alla partecipazione politica forse senza eguali. In epoca di Italicum credo non sia moderno sostenere questa tesi, soprattutto oggi che in quasi ogni campo sono di moda i nominati e non gli eletti.

D’altronde, ho sempre considerato la storia strettamente legata alla politica, la conoscenza e l’approfondimento della prima funzionale alla preparazione alla seconda. Forse anche questo non è consuetudine oggi, ma non mi rassegno. Sintetizzando la natura del Pci reggiano in quei due decenni direi che essa si compone essenzialmente di tre ingredienti. Il Pci è organizzazione, creatività, pragmatismo. Analizziamole una alla volta, queste componenti, sottolineandone anche le contraddizioni. Cominciamo dall’organizzazione. Quando entravi nella sede della federazione, il Cremlino di via Toschi (di fianco c’era l’ampia sede del Circolo Gramsci con bar e sala riunioni e da gioco e sull’altro lato la sede della redazione reggiana dell’Unità), l’immagine che ti rimbalzava davanti era quella di un pesante ministero romano o di una potente ambasciata.

C’era un compagno-usciere che ti chiedeva i documenti e un compagno-commesso che ti accompagnava ai piani superiori su una magnifica scala settecentesca, poi si stagliavano gli uffici con molte segretarie generalmente giovani e carine, magari tutte figlie di compagni, e in fondo a tutto l’ufficio del segretario, detto anche “il federale”, proprio come quello del ventennio. Nell’ampia sede, dotata di tre o quattro piani per migliaia di metri quadrati, era intagliato un vero e proprio teatro forse settecentesco, magnifico, con tanto di palchetti, nel quale si svolgevano le riunioni del Comitato federale. Molti riti di questo monumento alla partitocrazia erano proprio desunti dall’altra tradizione: la prima sede ereditata dopo la Liberazione era stata quella del Fascio di via Cairoli quasi a testimoniare una sorta di continuità del potere, anche se alla guerra di liberazione il Pci aveva recato il più alto contributo. Poi le celebrazioni della rivoluzione d’Ottobre, le sfilate più significative, come quelle del 25 aprile e del 1 maggio, l’organizzazione dei ragazzi e anche dei bambini attraverso apposite associazioni e poi gli iscritti, che erano quasi la metà dei voti, suddivisi in sezioni, cellule, zone, comitati, sottocomitati. Un’organizzazione capillare, un partito-istituzione, una forza politica che tutto occupava nella società e nello stato.

Il Pci reggiano era però anche altre due cose. Era creatività, movimento, amore del nuovo. Basti pensare alla capacità che alla fine degli anni sessanta seppe esprimere per guidare ed egemonizzare il movimento degli studenti, nonché alla ricerca di un laboratorio per sperimentare nuovi progetti nella cultura, nella musica, nei servizi sociali per l’infanzia, nella sanità con forme di psichiatria democratica e di assistenza domiciliare non sempre riuscite e spesso contraddittorie nei risultati. Approfondiamo dunque questa seconda identità comunista reggiana. Negli anni sessanta e poi, ancor di più, negli anni settanta, il Pci reggiano lanciò un vero e proprio laboratorio reggiano, certo anche assieme ad altri. Voglio qui ricordare nel campo della cultura figure come Franco Boiardi, nel teatro un grande organizzatore di cultura come Gigetto Reverberi, ma anche, se mi è consentito, Stefano Del Bue, in quello dei sevizi Lidia Greci, tutti di adesione socialista.

L’esperienza riformista non era certo trascurabile. Dal passato prampoliniano la sinistra a egemonia comunista acquisì le magnifiche esperienze delle municipalizzazioni, il culto della cooperazione, e anche la forte sensibilità ai sevizi dell’infanzia. Pensiamo alla figura di Giuseppe Soglia, direttore delle scuole comunali dal 1904, che proveniva dalla Romagna e pensiamo, in quello stesso periodo, alla realizzazione dei primi asili comunali. Dal riformismo reggiano si prese dunque non solo l’esperienza, ma anche il metodo. Quel ritrovarsi a Reggio per sperimentare nuovi modelli, per creare il laboratorio reggiano. Zibordi veniva da Mantova, Soglia da Imola, Samoggia da Bologna, Giglioli da Mirandola. E così Ambrosetti, Jervis, Pestalozza, Gentilucci venivano da fuori. Tra i due laboratori, quello riformista e quello comunista, c’era molto in comune. Forse non c’era la coerenza con la politica. I riformisti socialisti d’inizio secolo tali erano a Reggio come a Roma. I comunisti erano riformisti a Reggio e leninisti a Roma.

Ma restiamo a noi. Reggio Emilia, nella cultura, si aprì proprio negli anni sessanta, alla ricerca di nuovi modelli, pensiamo alle avanguardie letterarie come il Gruppo 63 che venne lanciato a Reggio l’anno dopo, pensiamo ad un’esperienza come Musica e Realtà, guidata da Giuseppe Pestalozza e al contributo di Armando Gentilucci, allora direttore del nostro Peri, alla figura spesso tormentata di Nanni Scolari. Pensiamo al contributo fornito appunto da Giancarlo Ambrosetti nei musei. Diciamo che il culto del nuovo non sempre sapeva conciliarsi con il rispetto e la valorizzazione delle tradizione. Anzi, se un difetto si può riscontrare in quell’esperienza, allora lo si può rinvenire proprio nella volontà tutta ideologica di contrapporre il nuovo alla tradizione, di non sapere sempre abbinare queste due dimensioni nella letteratura, nella musica, nel teatro, persino nelle arti visive con gli scontri tra figurativi conservatori e astrattisti progressisti.

Nel Pci forse esistevano al riguardo proprio due tendenze. Questo nel confronto culturale, ma anche nella politica dei servizi. Chi pensava al teatro e alla cultura borghese a cui contrapporre un teatro e una cultura proletaria, pensiamo ai frequenti spettacoli di Dario Fo, ma anche ai film girati qui da Pino Tosini con l’attore rivoluzionario Lou Castel che accusò il Pci di sviluppare addirittura “una sporca politica piccolo borghese e fascista”, e chi, penso al contributo di Giannino Degani, ma anche di Guido Zannoni, continuava a dedicare tutta la sua esistenza anche al patrimonio, sia pur rinnovato, della tradizione. Questa dicotomia era particolarmente presente nel settore della sanità, e nei servizi agli anziani, mentre in quelli ai bambini nessuno poteva mettere in discussione l’esperienza maturata a Reggio grazie al fondamentale apporto di Loris Malaguzzi patrocinata dal sindaco Renzo Bonazzi.

Si contrapponevano, come nella cultura, due linee, che chiamerei della istituzionalizzazione e della de istituzionalizzazione. Da un lato il privilegio da assicurare alla qualità delle istituzioni, al nostro nuovo ospedale ad esempio, inaugurato nel 1966 dal ministro Mariotti, grazie alla presidenza, negli anni settanta, di Franco Boiardi, dall’altro l’ansia di rivolgersi al territorio, come sostenevano i dirigenti del Consorzio quali Livio Montanari. La presenza a Reggio della cultura di psichiatria democratica, attraverso Jervis e il suo Centro di igiene mentale, faceva spesso pendere la bilancia sul secondo piatto. Ma credo non si possa negare l’alto contributo di anticipazione della legge 180 praticata al nostro San Lazzaro grazie ad Alessandro Carri e a una figura che poco fa ci ha lasciati per sempre e che a me sta ancora molto a cuore come il socialista Sergio Masini.

Nè si può disconoscere il contributo improntato a un genuino entusiasmo, che a volte sconfinava nella confusione, fornito da Giuseppe Soncini, che volle abbinare la gestione dell’ospedale, e poi dell’assessorato al bilancio del comune di Reggio, alla lotta di liberazione del Mozambico. Tutto questo era il Pci reggiano, ma il Pci reggiano era anche, e concludo, pragmatismo, amore per i problemi concreti, gusto della gestione e dell’amministrazione, costituito com’era da tanti amministratori, cooperatori, ma anche liberi professionisti, artigiani, commercianti, imprenditori. Pragmatici, assertori di un partito del governo e del potere, cantori del modello emiliano, propugnatori di larghe intese, felici del compromesso storico, generalmente subalterni sul piano politico alle linee che provenivano dall’alto, ma in qualche caso anche capaci di dire no. In tanti ebbero il coraggio di dir di no al referendum sulla scala mobile del 1985, senza peraltro far troppo chiasso.

Il Pci reggiano rappresentava tutte e tre queste componenti: massiccia organizzazione, capacità di guidare il nuovo, pragmatismo e gestione del potere. E credo che sia giusto ricordarlo, con la consapevolezza che chi non ricorda la storia sia destinato a non comprendere e risolvere i problemi del presente. Ho scritto tre volumi sulla storia del socialismo reggiano, che nel dopoguerra ha rappresentato, attraverso Psi e Psdi, una componente minoritaria nel panorama della sinistra reggiana. Perché non ci si dedica a un volume di storia completo e approfondito sul Pci reggiano? Se qualcuno prende l’iniziativa io sono disponibile a dare, gratuitamente, come si dice oggi, il mio contributo. Quello di un socialista riformista e liberale, ormai in procinto di diventare solo uno studioso, che non può dimenticare quel che il Pci reggiano ha costruito nel corso di un percorso durato dal 1945 fino al 1989. Un partito che ha saputo rifondarsi rinascendo, dopo l’89, non più comunista, perché non lo era mai stato o perché lo era stato molto a modo suo? Vi ringrazio ancora e mi auguro che l’incontro di stasera sappia suscitare emozioni e ragionamenti.