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Novant’anni fa Matteotti uccise Mussolini

L’anno scorso tenni la commemorazione di Giacomo Matteotti nel cortile della sua villa a Fratta Polesine. Volli intitolare il testo che preparai proprio all’incontrario. Fu Matteotti a uccidere Mussolini. La brutale e ferale aggressione subita dal deputato socialista da parte dei suoi sicari sul lungotevere Arnaldo da Brescia il 10 giugno di novant’anni fa è una delle pagine più nere del regime. Rischiò di avvitarlo subito in una crisi che pareva definitiva, sfociata nell’Aventino, e risolta con un ulteriore giro di vite e col discorso mussoliniano del gennaio del 1925, ma venne ricordata come il più insano e crudele misfatto fascista e come il più alto e nobile sacrificio del martire.

Oggi si può ben dire, novant’anni dopo, che Matteotti vive e Mussolini è morto. Matteotti vive come uomo politico che abbracciò il socialismo sostenendo le dure lotte di resistenza dei suoi contadini, in quel Polesine governato dalla miseria e dalla pellagra. Poi come parlamentare succeduto proprio a un deputato della mia Reggio, eletto nel 1913 in Polesine, Giuseppe Soglia, romagnolo di origine e direttore delle scuole della mia città. Era stato eletto a Lendinara, poi centro del collegio elettorale proporzionale che nel 1919 vide trionfare Giacomo Matteotti.

Matteotti era un socialista intransigentemente riformista. Si tratta di due termini assolutamente conciliati nella sua figura di uomo politico. Egli si oppose alla bolscevizzazione del Psi e fu con Turati, Treves e Prampolini quando un dictat di Mosca impose la loro espulsione dal partito a pochi giorni dalla marcia su Roma del 28 ottobre del 1922. A proposito di una riconciliazione tra riformisti e massimalisti per le elezioni del 1924 si ricorda la storica frase: “I socialisti coi socialisti, i comunisti coi comunisti”. In realtà egli scrisse su La Giustizia, quotidiano del Psu: “Sono sempre stato favorevole all’unità perché, al di sotto delle frasi e delle forme”, egli scrive, “ho sempre visto una identità sostanziale tra tutti i socialisti e un’antitesi netta soltanto col comunismo”. Ma nel contempo fu colui che più si oppose al primo fascismo. Scrisse un opuscolo sulle violenze del 1921 e un libro più tardi per denunciare la sopraffazione del nuovo regime.

Fino al suo discorso alla Camera del 30 maggio del 1924 dopo elezioni caratterizzate da violenze e intimidazioni. Segretario del Psu, il partito formato dai riformisti dopo la loro espulsione, prese la parola alla Camera per chiedere l’invalidazione delle elezioni, fu interrotto più volte, perfino dal presidente che ebbe modo di rimproverargli l’imprudenza, poi qualche giorno dopo avvenne l’aggressione dei cinque sicari, Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Angelo Malacria. A sferrare i colpi mortali a Matteotti sarebbe stato il Poveromo, lo dichiara il figlio di Matteotti, Matteo, al quale lo avrebbe confessato lo stesso Poveromo nel 1951, quando era in carcere.

Recentemente la pubblicistica ha sostenuto la tesi secondo la quale il motivo dell’assassinio di Matteotti non debba essere ricondotto al suo discorso parlamentare ma alla denuncia che il segretario del Psu era in procinto di documentare (da qui il mistero sulla sua borsa) sullo scandalo Sinclair, la società petrolifera che avrebbe pagato profumate tangenti a uomini del governo, coinvolgendo la stessa monarchia. Questo nulla toglierebbe alla nobiltà della figura di Matteotti, anzi la accrescerebbe di ulteriore forza. Matteotti socialista riformista, antifascista e anche combattente contro la corruzione. In qualche misura c’è lo renderebbe anche più moderno e più vivo.