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La relazione di Del Bue al convegno di Roma sul polo riformista

30 Aprile 2015 1.682 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Propongo alla comune riflessione tre questioni di merito e una premessa politica. Parto dalla premessa. La fase che stiamo attraversando è caratterizzata dalla supremazia del PD renziano e dalla sua riconosciuta (forse autentica, forse apparente) capacità riformatrice. La febbre, dopo le votazioni di ieri, è solo a 38 come titola in modo tagliente il Manifesto. Dunque Renzi sta uscendo più forte dal cuneo della riforma elettorale e i suoi oppositori più deboli.
Esiste uno spazio diverso e distinto che non scivoli né nel conservatorismo, di destra o di sinistra, né nel populismo grillino o landiniano? Uno spazio che possa contrassegnarsi per identità, storia, coerenza riformatrice? Quanto spazio accorda la nuova legge elettorale a questa eventualità? La questione è aperta. Cominciamo e discuterne. I tre temi di merito sono i seguenti: 1) La questione economica e sociale, sulla quale registriamo una sostanziale convergenza col governo, anche se possiamo trovare spazio per alcune iniziative autonome. 2) La questione dei diritti civili, sulla quale esiste lo spazio per una autonoma azione politica. 3) La questione delle riforme istituzionali, sulla quale invece esiste la straordinaria opportunità di uno spazio per un progetto organico e alternativo.
1) Il terreno sul quale registriamo consenso, ma anche spazio per talune autonome iniziative, è dunque quello economico-sociale. Il Jobs act è una buona legge. Non posso dimenticare né la flex security che i socialisti europei lanciarono nel 2006 con la conferenza di Lisbona, né il progetto Ichino che la Costituente socialista ha fatto suo nel 2007. Giusta la filosofia di fondo, anche se si potevano evitare toni e modalità discutibili nell’approccio col movimento sindacale. L’emergenza è la disoccupazione, e la seconda è il precariato. Il nuovo contratto a tempo indeterminato sta producendo i primi risultati. Si tratta di contratti precari che diventano ordinari e non di nuova occupazione? Anche se così fosse è positivo. Io svilupperei su questo tre proposte specifiche. La prima sulla cogestione in salsa tedesca. Perché il sindacato non la fa propria? Il problema dei diritti degli occupati nelle aziende non sarebbe più tutelato dalla presenza dei lavoratori nella conduzione aziendale? Mi pare questo, più ancora della conservazione dell’articolo 18, il nuovo argine alla prepotenza e al capriccio, se mai vi fossero. La seconda è il reddito di cittadinanza. Perché lasciarlo a Grillo come rivendicazione sociale? Penso che in una fase di grande difficoltà questo possa diventare obiettivo di equità di una sinistra riformista, anche se mi rendo conto che la sua attuazione appare quanto mai problematica nell’attuale contesto di vincoli e di obblighi. Infine una necessità e cioè la tutela anche normativa dei lavoratori anziani che, alla luce dell’allungamento dell’età lavorativa, non possono essere sottoposti a lavori usuranti. Lo dico anche in nome di un principio di umanitarismo socialista che fa parte della nostra storia. 2) Il Pd sul tema dei diritti civili è fermo. Su questo esiste lo spazio per un’azione politica autonoma. Anche perché il Pd è un partito diviso sul tema della laicità. Una divisone che produce l’empasse. Dobbiamo rilanciare tre questioni su tutte: la legge sul fine vita, che è ancora bloccata dai tempi dello sciagurato decreto del governo Berlusconi contro la libertà di morire. Poi le unioni civili, stabilendo al di là del nome (unioni o matrimoni) gli stessi diritti tra eterosessuali e omosessuali. Infine la fecondazioneartificiale, con una legge 40 clamorosamente annullata dalle sentenze della Corte costituzionale e che ancora non ha trovato una successiva legiferazione. 3) Sulle riforme istituzionali esiste lo spazio per un progetto organico e coerente perché per adesso di coerenza e di organicità non esiste traccia. La legge costituzionale e la legge elettorale non concludono e non annunciano un progetto. Riprenderei il tema “Quale forma di stato”? Se presidenziale o parlamentare. Il limite dell’Italicum è quello di essere ritagliato sul modello presidenziale senza presidenzialismo. Noi parliamo di un vincitore per legge. Non esiste nemmeno in Inghilterra, con l’uninominale secco, un vincitore decretato per legge. Tanto è vero che alle ultime elezioni conservatori e laburisti hanno dovuto fare un governo insieme. Esiste sempre un vincitore dove si elegge un presidente, non dove si elegge un Parlamento. Abbiamo introdotto il doppio turno nazionale che esiste in Francia solo per l’elezione del presidente. Noi invece eleggiamo solo il Parlamento, anzi una sola Camera, perché l’altra sarà nominata e composta prevalentemente dai consiglieri regionali, che non mi pare oggi godano della più grande considerazione della storia repubblicana. Il presidente del Consiglio continuerà peraltro ad essere designato dal presidente della Repubblica. E il suo governo continuerà, per esistere, a chiedere la fiducia. Perché allora non delineare un progetto coerente? A me pare che le possibili imitazioni, se mai riuscissimo a uscire dal nostro culto italico, o Italicum, siano quelle della Germania e della Francia. Un parlamentarismo con proporzionale sia pur collegato al cancellierato o un presidenzialismo o semi presidenzialismo con legge alla francese, maggioritaria e uninominale a due turni di collegio. Forse anche conciliata a quel punto con una sorta di Italicum nostrano. Ma dividendo la legge per l’elezione del presidente da quella per il Parlamento. Insomma coerenza e progettualità. Abbiamo più volte sottolineato, come Avanti, i punti critici dell’Italicum. Ciò detto occorre sottolineare anche le incongruenze dei contestatori dell’ultimo miglio. Prendiamo Forza Italia che vota contro la costituzionalità delle legge alla Camera dopo averla approvata con piena soddisfazione al Senato. E che dire di Brunetta che ne ha delineato il carattere fascista dopo che i suoi senatori ne avevano esaltato il significato democratico? Anche la minoranza del Pd non appare coerente. Perché Bersani e i suoi non hanno appoggiato, quando il piccolo Psi l’aveva avanzata, l’idea della elezione di un’assemblea costituente? E perché hanno accettato il premio di lista che può andare bene ad Alfano che di coalizioni non ne vuole sapere visto che non vuole finire con Salvini né può allearsi col centro-sinistra se non altro per incompatibilità lessicale, ma che certo, spero che ne siamo ben coscienti noi socialisti, rende ben più temeraria, se non impossibile, la formazione di una lista che punti al tre per cento, fuori da ogni alleanza. È vero, sono stati apportati miglioramenti alle legge: sugli sbarramenti, sulle preferenze, sulla soglia per accaparrarsi il premio. Ma sostituendo il premio alla coalizione col premio alla lista si introduce un sostanziale mutamento dello stesso sistema politico-elettorale. Vedo che ancora i giornali, i grandi padroni dei talk show, perfino i sondaggisti non lo hanno compreso. Parlano ancora di centro-destra e di centro-sinistra, poi di liste di partito, ipotizzando che al ballottaggio possano andare PD e grillini. Che professionalità e che profondità di analisi. Non ci saranno più, con l’Italicum, centro-destra e centro-sinistra come alleanze, e non ci saranno, tranne eccezioni, liste di partito. Si formeranno probabilmente liste di coalizione. Da un lato quella del PD che si aprirà ai suoi alleati per tentare di superare al primo turno il 40 per cento. Dall’altro quella di Forza Italia, con Lega e Fratelli d’Italia, per tentare di competere, come seconda lista, verso lo stesso obiettivo. A meno che i partiti di centro-destra scelgano, presentandosi divisi, di perdere ancora prima di cominciare la campagna elettorale. La rivoluzione del sistema elettorale non è detto che porti poi alla rivoluzione del sistema politico. Questo per due motivi. Il primo è attinente il rapporto tra liste e partiti. Si possono presentare liste di coalizione che poi si sfasciano il giorno dopo le elezioni. Il secondo attiene la situazione interna dei partiti. Oggi nel Pd si scontra non solo la maggioranza e la minoranza del partito, ma la maggioranza e la minoranza del parlamento. E non su una questione marginale, ma sulla concezione della democrazia. Può anche essere che con le elezioni Renzi faccia piazza pulita dei suoi avversari. Su questo non gli darei torto. Come si fa a restare nello stesso partito se non solo non si vota la fiducia al governo presieduto dal suo segretario, ma se si grida all’attentato alla democrazia? In questi giorni la lotta sull’Italicum è diventata solo politica. Più che il merito della legge la questione è diventata quella del sostegno o meno al governo. Anche se l’attuale presidente del Consiglio aveva previsto che le riforme istituzionali dovessero essere distinte dalla maggioranza di governo. A tal punto da avere pensato, da un lato, a un patto di governo e dall’altro al patto del Nazareno. Capisco che una volta saltato il patto del Nazareno con l’improvvisa infatuazione renziana per Mattarella il presidente del Consiglio ha avuto bisogno di cambiare idea riportando le riforme nel recinto della sua maggioranza, anche se non è riuscito a conseguire l’unità del suo partito.
Tutto questo può divenire materia di azione politica su un progetto di stato e di democrazia. Mi rendo conto che questa nostra collocazione potrebbe configurarsi come una sorta di terra di nessuno. Nessuno era anche Polifemo, però. Che era un gigante che si accontentava di essere mezzo cieco. E che finì cieco del tutto. Mi accontenterei di non fare la sua fine a causa dell’astuto Ulisse-Matteo. E di continuare a bere del vino buono restando lucido.

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