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Alberto, no …

Eravamo tutti contenti per la sua uscita dal tunnel. Alberto aveva appena superato le conseguenze di un grave incidente che ci avevano fatto palpitare. Forse aveva visto la morte in faccia. Nessuno potrà mai sapere perché l’abbia poi voluta agganciare. I perché mi perseguitano. Forse solo lui li potrebbe svelare. Tuttavia rispetto la sua scelta, uno dei possibili esiti della sua vita da artista sempre in cerca di riconoscimenti.
Avevo conosciuto Alberto a teatro. Mi guardò accigliato in un intervallo di un’Aida e mi accusò indicandomi come responsabile della sostituzione del direttore dell’epoca. Non era vero, ma quel ragazzo tutto vestito in nero che sembrava un gufo, così appassionato di musica lirica, mi incuriosì. Finimmo davanti a una pizza a parlare di opere. Da allora, eravamo nel 1987, Albe ha fatto parte della mia vita. Si è inserito nella mia famiglia, nel mio partito, nelle mie passioni. Ricordo di viaggi fatti insieme in mille teatri e delle sue rumorose contestazioni che mi prendevano d’assalto, ma in fondo mi facevano piacere. Perché il teatro d’opera è fatto anche di urla e di fischi. Perché è denso di insidie, di sorprese, di incognite. Come quello di una volta. Ricordo le serate passate insieme a Roma e a Reggio a cantare e a brindare. E parlare dei suoi amori, con un monotipo di ragazzo, sempre carino e un po’ effeminato. Aveva gli stessi gusti di mia figlia Laura. Forse l’incontrerà. Sapeva usare il gusto dell’ironia e penetrare il senso comico della vita. Critico d’arte lo era diventato per una squisita sensibilità a scrutare e assorbire ogni arte. In questo era personaggio ottocentesco. Spigoloso, a volte irritante con chi non gli andava a genio, sapeva suscitare odio o amore. Sentimenti e risentimenti. Mai indifferenza. Eppure durante l’incidente un numero enorme di persone, soprattutto donne (Alberto aveva una sensibilità femminile) si era radunata a suo confortevole supporto. All’Ospedale di Parma i medici dissero che non avevano mai visto tanta gente al capezzale di un paziente. Sono andato a trovarlo all’ospedale di Correggio e mi parlò subito dell’Otello di Pizzi e capì che era guarito. Non so cosa abbia pensato prima del gesto finale. Cosa gli sia balenato di così tragico e irreversibile. Di non essere tornato come prima? Di non aver più possibilità di guadagnare? Di non avere più attorno a sé tutti coloro che lo avevano accompagnato durante la degenza? Un distacco sentimentale? Non so. Albe, io posso solo non dimenticarti e sono sicuro che tutti quelli che ti hanno conosciuto sentiranno la tua assenza. Che poi è la sola cosa che il tuo gesto ci comunica. Per questo scrivo, perché tu lo avresti desiderato. Perché so che lo avresti preteso.