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Alla guerra si risponde con la pace?

Prima obiezione. Al corteo che si è svolto a Roma, promosso dalla FIOM, oltre alla condanna del terrorismo campeggiava uno slogan con su scritto “Alla guerra si risponde con la pace”. Lo sostenevano anche i pacifisti nel 1939 dopo l’invasione tedesca della Polonia e si chiedevano che senso avesse “Mourir pour Danzique”. Oggi si può anche capire il grido di coloro che ritengono che la responsabilità del dramma che continua, come confermano gli attentati in Mali, le incursioni a Saint Denis dopo le stragi di Parigi, l’emergenza di guerra decretata a Bruxelles e in tutto il Belgio, sia anche frutto degli errori dell’Occidente in Iraq, in Libia e io aggiungo anche in Siria. Non credo invece fossero da evitare i conflitti per la liberazione del Kuwait e la guerra in Afghanistan, entrambi certificati dall’Onu, il primo per liberare un paese invaso da un altro e il secondo a seguito dell’11 settembre e della copertura ad Al Qaeda da parte dei talebani. D’altronde anche l’avvento di Hitler al potere nel 1933 non era il frutto delle esagerazioni e delle umiliazioni che il trattato di Versailles imponeva alla Germania? Non per questo non si sarebbe dovuto combattere il nazismo e alzare bandiera bianca.

Seconda obiezione. Un altro corteo si è svolto a Roma, promosso dalle comunità musulmane che ha visto la partecipazione di circa 4mila persone. È stato, questo, un esplicito e solenne manifesto di condanna verso l’estremismo islamico con la parola d’ordine “Not in my name” che è sconfessione religiosa di quanti uccidono in nome di Allah. Resta tuttavia preoccupante il risultato del sondaggio diffuso in questi giorni secondo il quale il 12 per cento della comunità musulmana legalmente residente in Italia non si riconosce nei nostri valori e giustifica gli attentati di Parigi. Si tratta di ben 180mila persone, non di un numero irrisorio e ininfluente. Costoro vengono tenuti d’occhio e se il caso denunciati alle autorità preposte dalle autorità musulmane?

Terza obiezione. Una cosa è lottare e battere il terrorismo contro il quale è giusto mobilitare tutte le nazioni arabe e le popolazioni musulmane. Altra cosa è estirpare il germe del fanatismo e dell’intolleranza in cui la cultura della violenza si alimenta e si sviluppa. Noi dobbiamo essere consapevoli che la lotta al terrorismo islamico va condotta su due fronti. Dal punto di vista militare la tattica dei bombardamenti dovrà sfociare in un attacco di terra che coinvolga innanzitutto i curdi e gli arabi, con supporto strategico e aereo della comunità internazionale. E questo, da quel che si intuisce, è quel che pensano russi e naturalmente gli americani. É vero che dobbiamo sviluppare anche una lotta di tipo culturale, ma questa non esclude quella di tipo militare. O si pensa che solo con la cultura si batta l’Isis che è un’organizzazione militare?

Quarta obiezione. Ma se noi europei non siamo consapevoli della superiorità della nostra tradizione laica e liberale, se non siamo in grado di integrare a questi valori di fondo della persona, della società e dello stato i nostri ospiti, se questi ultimi formeranno pezzi di società illiberali, fondate sulla sharia, sullo sfruttamento della donna, sul dominio dei figli e sul diritto di imporre loro un coniuge, se tutto questo si trasformerà o in una assurda coabitazione di valori inconciliabili o addirittura in una integrazione all’incontrario allora noi avremo perso la guerra. Ecco perché se la consapevolezza della lotta a difesa di una cultura non può escludere l’uso della forza, quest’ultima non può escludere l’altra.

Scrive bene sul Corriere oggi Pier Luigi Battista: “Le comunità islamiche dell’Occidente devono dire all’Europa laica e tollerante se considerano giusto, degno di esempio, il tumulto cruento, l’assalto alle ambasciate, le violenza, le bandiere bruciate … Devono dire se sono preoccupate per la violenza antisemita …. e cosa pensano della persecuzione anti cristiana del mondo islamico, quella che in Arabia Saudita, non nei territori dell’Isis, comporta la condanna a morte se un cristiano viene scoperto in possesso di un crocifisso o di un rosario nascosto in un cassetto, cosa pensano dei blogger che da Teheran a Riad, nell’islamismo sciita e sunnita, vengono frustati se in dissenso coi loro governi. E se pensano che sia giusto che Ayaan Hirsi Alì, l’autrice di un libro bellissimo come Eretica, debba vivere blindata, bersaglio dell’odio dei fanatici jihadisti”

È importante e confortante la presa di distanza e la condanna dei musulmani italiani dalle stragi di Parigi. Anche se purtroppo una minoranza li giustifica. Occorre anche una presa di distanza dall’intolleranza e dalla prevaricazione che in nome di quella religione molti stati arabi (con l’eccezione della Tunisia e in parte dell’Egitto) continuano a praticare contro gli infedeli e i dissidenti, da una visione dello stato teocratico e di una società totalitaria con valori che l’Europa ha superato da trecento anni. Per questo anche tra noi questo continuo complesso di colpa che ci anima e che stupidamente viene intercettato nelle parole sconnesse di una celebre cantante, ma anche da un personaggio di valore scientifico e con eccelse vocazioni umanitarie, deve lasciare prima o poi il posto alla necessità di difendere quei principi, diciamo pure quelli dell’Ottantanove francese, mai come oggi in discussione, mai come oggi in pericolo. La Francia ne è consapevole. L’Italia?