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Seconda puntata. Il Senato dal regno al ragno

26 Maggio 2016 842 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Tanti parlano di questo istituto esaltandone le funzioni o denigrandole spesso, senza conoscerne la storia, le ragioni della sua nascita, la sua evoluzione, la sua trasformazione all’assemblea costituente, i diversi tentativi, sostanzialmente tutti naufragati, per riformarlo. Parto allora dal Senato regio che, sulla scorta di quello istituito nel regno del Piemonte, venne ereditato nell’Italia unita a partire dalla sua costituzione. Si trattava di un Senato per meriti acquisiti e di nomina regia. Aveva però diversi poteri, ma mai si avvalse di quello di condizionare i governi. Venne mantenuto in carica anche durante il fascismo e la dittatura, che assunse cosi un carattere particolare, anche a seguito dell’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni. Il Senato era una sorta di proiezione del potere della monarchia sul regime. Ma ben presto, soprattutto negli anni trenta, si trasformò, per la sua stessa composizione, in istituto di supporto e di pieno appoggio al fascismo.

Nel dibattito alla Costituente si fronteggiarono due impostazioni. Quella tendenzialmente monocameralista del Pci e del Psi, tese a conferite pieni poteri a una sola Camera, col Psi più disponibile ad accoglierne una seconda di natura prevalentemente economica, la Dc sensibile a una seconda Camera per le professioni, le categorie sociali, la cultura, e i laici che invece proponevano un bicameralismo più o meno paritario. Ne uscì un bicameralismo differenziato solo su taluni aspetti: nel numero (la Camera era composta di 630 deputati e il Senato di 315), nell’elettorato (per il voto erano richiesti 25 anni e non la maggiore età come alla Camera, per quello attivo veniva richiesta un’età di 40 anni contro i 25 richiesti per l’elezione alla Camera), per la sede di elezione (che la Costituzione prevede esplicitamente “su base regionale” anche se non di emanazione delle assemblee regionali, allora inesistenti), nella durata (che era di sei anni contro i cinque della Camera, ma 1953 e nel 1958 il Senato venne sciolto anticipatamente per permettere una elezione congiunta del Parlamento e con legge del 1963 anche la durata del Senato venne portata a cinque anni). La legge elettorale che non figurò in Costituzione, venne scelta anch’essa differenziata, con collegi uninominali per il Senato e per la Camera con collegi proporzionali e le preferenze.

Il vero dibattito, che animò solo la destra (vedasi le posizioni di Randolfo Pacciardi, prima valoroso comandante antifascista, sul presidenzialismo che solo il Partito d’azione aveva sostenuto all’Assemblea Costituente), venne rilanciato solo nel 1979 da Bettino Craxi con l’ipotesi della grande riforma e dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. Il primo gruppo che lavorò, tra il 1980 e il 1983, a un progetto di riassetto istituzionale fu quello cosiddetto di Milano, con Gianfranco Miglio, Augusto Barbera, Federico Mancini, Leo Valiani e altri, tutti nomi prestigiosi, che ipotizzava un Senato federale sull’esempio del Bundesrat tedesco. Poi, nel 1983, si istituì la prima commissione bicamerale che avrebbe dovuto formulare proposte di modifica istituzionale e costituzionale, presieduta dal sen. Bozzi. Nel 1985 la Commissione presentò diverse proposte, tra le quali una leggera diminuzione dei parlamentari, l’elettorato attivo e passivo ai maggiorenni nelle due Camere, la trasformazione del bicameralismo indifferenziato in un bicameralismo ove le due Camere avevano diversa competenza anche se molti punti comuni. Non se ne fece nulla.

Nel 1990 tentarono in quattro (Pasquino, Filetti, Pecchioli e Mancino) a formulare una proposta di riforma che diversificava le competenze delle due Camere, senza successo. Fu poi la volta nel 1992-1994 della Commissione De Mita-Iotti (composta da trenta deputati e trenta senatori) che ipotizzava il premierato forte sul modello tedesco col Parlamento che in seduta comune avrebbe dovuto eleggere il primo ministro, che a sua volta avrebbe eletto e revocato i ministri, e che abbassava la durata della legislatura a quattro anni. Poi tra il 1997 e il 1998 fu la volta della Bicamerale di D’Alema che uscì col progetto del semipresidenzialismo alla francese e con una proposta di legge elettorale a doppio turno di collegio. Nel 2005 tentarono i quattro saggi di Lorenzago (Calderoli, D’Onofrio, Nania e Pastore) che portavano a 518 i deputati e a 252 i senatori, che ipotizzavano il premierato forte e la fine del bicameralismo indifferenziato. Nel 2007 tentò Violante con la sua bozza e la proposta del Senato federale. Poi nel 2012 uscirono i cosidetti A-B-C, cioè Alfano, Bersani e Casini, con la proposta del premierato (ma D’Alema non era per il presidenzialismo alla francese?) e la fine del bicameralismo perfetto. Nessuna proposta è mai andata in porto. Adesso c’è il rischio che anche quest’ultima, pur con tutte le contraddizioni e i limiti, venga bocciata dall’elettorato. Non sarebbe un po’ comico?

 

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