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Peshmerga

Henry Levy, che in Kurdistan ha voluto trascorrere un bel po’ di tempo, ha dedicato loro un film presentato a Roma. Noi ne parliamo quando ci occupiamo della guerra all’Isis come fossero misteriosi e invisibili angeli salvatori. In realtà sono combattenti del Kurdistan nell’Iraq settentrionale. Il loro nome significa “votati alla morte”. Oggi sono circa 200mila e combattono contro i terroristi, come prima avevano combattuto contro il tiranno Saddam Hussein che i curdi aveva sterminato anche facendo uso delle armi chimiche. Oggi sono riconosciuti e in parte anche integrati nell’esercito regolare iracheno, ma hanno una loro autonomia organizzativa e militare nella regione curda dell’Irak, l’unica tra quelle curde a veder riconosciuta una relativa indipendenza amministrativa.

I Peshmerga hanno anche sconfinato e combattuto l’Isis a Kobane, spingendosi anche in territorio siriano. Certo hanno ottenuto appoggi in denaro e in armi dall’Occidente e anche dall’Italia che ha inviato loro, attraverso il governo iracheno (l’Itala non può inviare armi se non a stati riconosciuti) 200 mitragliatrici, 650mila munizioni e oltre 2000 razzi HEAT. Oltre a questo, assieme alla Germania l’Italia sta offrendo anche supporto logistico per le truppe peshmerga grazie ad addestramenti militari in Iraq per oltre 2000 combattenti. I Peshmerga sono eroi che combattono non solo per la loro più o meno relativa indipendenza, ma anche per la nostra libertà e civiltà. Come quella ragazza di Kobane che morì con le armi in pugno e che commosse il mondo intero.

E’ facile combattere il terrorismo aiutando chi è in prima linea, o limitandosi ad azioni dal cielo, come stanno facendo gli americani. Ma combattere viso a viso una guerra di trincea è assai più problematico e rischioso. Disse qualche mese fa l’ex ministro D’Alema che per sottrarre il territorio allo stato islamico, da Mosul a Raqqa, bastavano i curdi appoggiati dagli aerei americani. E’ quel che sta avvenendo. Senza i Peshmerga l’avanzata delle truppe irachene sarebbe votata a ben altro esito. Dunque raccogliamo l’appello di Bernard Henry Levy. Non lasciamo soli i curdi dopo la fine della guerra. Non deludiamo le loro speranze e i loro sogni. Chi più di loro ha diritto all’aureola di vincitori?

Sappiamo bene che il Kurdistan è territorio incastrato in stati diversi che vanno dall’Iraq, alla Siria, alla Turchia, all’Iran e che si spinge fino ai confini con l’Armenia. E sappiamo che in ogni realtà nazionale sorgono specifiche questioni, partiti diversi, metodologia di lotta diverse, e che in talune circostanze i diversi partiti curdi si sono combattuti tra loro. Resta il fatto che questo popolo ha una lingua e una tradizione comune, che la sua indipendenza è stata al centro di molte contese nel secolo scorso e la negazione dell’esistenza di una autonomia, se non di un vero e proprio stato curdo, é sempre stata condizionata dalla florida presenza di pozzi petroliferi che, se sottratti agli stati dai quali il Kurdistan dipende, anche oggi determina comprensibili, ma non apprezzabili, reazioni. L’appello di Henry Levy di non deludere le aspettative dei curdi oggi più che mai deve essere fatto nostro. Guai a deludere che ha messo a disposizione la vita per liberarci dal più grande pericolo. Guai a rendere vana la loro eroica resistenza.