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Il centenario di una guerra vinta

E’ vero. Fu un macello. I 650mila morti italiani, quasi tutti giovani, ragazzi e anche ragazzini caduti al fronte in battaglie sanguinarie, sono circa il doppio dei morti, anche per i bombardamenti cruenti sulle città e a seguito della criminale offensiva di Russia, nella seconda guerra mondiale. E’ vero. La guerra era meglio evitarla come avrebbero voluto Giovanni Giolitti e la maggioranza dei socialisti, chi per ragioni morali come Turati e Prampolini, chi per l’indifferenza assoluta tra le parti in campo, come i rivoluzionari. Ma furono tanti coloro che alla guerra parteciparono con entusiasmo, pronti al sacrificio della propria vita. Furono tantissimi i volontari presi da motivazioni e da ispirazioni ideali diverse.

Tra costoro c’erano interventisti d’impronta nazionalistica che però avrebbero preferito mantenersi leali alla Triplice alleanza con gli imperi centrali assolutistici e imperialisti. Ma c’erano anche tanti che volevano una discesa in campo dell’Italia con l’Intesa nella considerazione che la guerra fosse la quarta d’indipendenza nazionale, come i nipoti di Garibaldi, che caddero in difesa della Francia, nelle Argonne tra la fine del 1914 e l’inizio del 1915. C’erano interventisti democratici, coloro che ritenevano che Francia e Inghilterra dovessero avere la meglio sull’impero Austro-ungherese e sulla Germania, e che lottavano anche per la indipendenza degli stati balcanici. Tra questi molti repubblicani e socialisti, come Pietro Nenni, Leonida Bissolati, Gaetano Salvemini. Anche Sandro Pertini e Palmiro Togliatti parteciparono al conflitto, il primo meritando una medaglia.

Poi c’era il caso politico di Cesare Battisti, il socialista trentino che lottava soprattutto per l’italianità del suo territorio. Gia deputato socialista austriaco si arruolò volontario negli alpini italiani, venne catturato, condannato per tradimento e impiccato assieme al patriota istriano Fabio Filzi. E c’era un patriottismo di difesa come quello di Filippo Turati che dopo Caporetto si convinse della necessità di scendere in campo per la difesa del suolo patrio dall’invasione austriaca. Turati e Treves scrivono su Critica sociale dell’1-15 novembre del 1917, con la solita lucidità e il consueto coraggio: “Quando la patria é oppressa, quando il fiotto invasore minaccia di chiudersi su di essa, le stesse ire contro gli uomini e gli eventi che la ridussero a tale, sembrano passare in seconda linea, per lasciare lampeggiare nell’anima soltanto l’atroce dolore per il danno e il lutto e la ferma volontà di combattere, di resistere fino all’estremo”.

Col discorso alla Camera di Turati del febbraio del 1918 e ancora più con quello del giugno, nel corso della battaglia del Piave, entrambi ispirati a patriottismo di difesa, si aprirono feroci dissensi all’interno del Psi. Turati fu sottoposto a una sorta di processo, il primo di una lunga sfilza e che terminò solo con la sua morte (ma in verità nemmeno) da parte degli ortodossi, o presunti tali. Il congresso del Psi di Roma del 21 luglio 1918 fu celebrato proprio per questo. Disse imperterrito Turati, a proposito dell’invito a dimettersi formulato dalla Direzione al gruppo socialista: “Io considero un errore, sto per dire, più che un errore, una vera diserzione in tempo di guerra di fronte al nemico, meritevole si ogni più lauta premiazione dei partiti avversari, l’abbandono del posto comunque assegnato ai rappresentanti dell’idea socialista”.

Turati volle ricordare un episodio capitato a Milano nel corso dell’assemblea socialista: “Quando ai nostri accusatori noi rispondevamo: “Ma allora volete gli austriaci a Milano”, era una vera insurrezione che si scatenava: “E quando mai abbiamo detto questo?”. E allora, rimbeccavamo: “Se non li volete li volete riccacciare?”. “No, neppure questo”. “Ma infine li volete o non li volete?. Bisogna pur decidersi. O sì o no”. Tutte le opinioni sono rispettabili tranne il ni che non é un’opinione. Tanto che a Milano per metterli alla prova, camuffandomi da estremista, proposi io stesso un ordine del giorno in questo senso: “I proletari non hanno patria e se ne infischiano della dominazione straniera”. Ma fu un tolle generale contro di me. L’hanno votato in dieci ed eravamo forse trecento. E ancor di più domandandosi quale poteva essere la soluzione, si rispose: “La passività rassegnata”, come ha detto Zibordi. Ahimè, io ho paura che non si sarebbero trattenuti gli austriaci al di là del Piave con la semplice passività rassegnata o disciplinata. Per combattere bisogna combattere, per difendersi bisogna non pigliarle. E la passività, disciplinata o no, è certamente l’opposto dell’attività che occorre in questi casi”.

Con queste parole di Filippo Turati noi oggi ricordiamo i tanti che hanno combattuto, e troppi sono morti, per difendere l’Italia in una guerra che poteva essere evitata, ma che divenne d’invasione e che tanti giovani riuscirono a fermare. E personalmente protesto contro un silenzio assordante di tutte le istituzioni e gli organi d’informazione su un centenario che avrebbe dovuto essere di ricordo, di approfondimento, di confronto. Non mi aspettavo che i fautori del novello sovranismo ricordassero almeno l’aspetto indipendentista della prima guerra mondiale che i nostri soldati riuscirono a difendere e ad esaltare. Avrebbero dovuto svolgere una originale attività per loro: studiare.