Home » Reggio Emilia

Le Villi di Puccini tra sinfonismo e satanismo

30 Novembre 2018 849 views No CommentStampa questo articolo Stampa questo articolo

Puccini scrisse la sua prima opera, Les Willis, poi divenuta le Villi a seguito di una revisione avvenuta qualche mese dopo, nel 1883, a soli 25 anni, poco dopo essersi diplomato al Conservatorio milanese, sotto il vigile e interessato magistero di Amilcare Ponchielli, il già famoso autore di Gioconda. Fu proprio Ponchielli a indirizzarlo al poeta scapigliato Ferdinando Fontana, amico do Arrigo Boito, musicista e soprattutto geniale collaboratore e librettista dell’ultimo Verdi. Puccini aveva fino ad allora scritto solo sinfonie, famoso il suo Capriccio sinfonico che gli servì come lavoro conclusivo del suo Conservatorio.

Fontana indirizzò il giovane Giacomo verso una strana e antica leggenda radicata nell’Europa centrale, soprattutto in Austria e in Germania, ricavata dal racconto di Alfonse Karr, scritto neL 1852, che a sua volta aveva preso spunto dal balletto Giselle, del 1841, musicato da Adolphe Aadam su libretto di Théophile Gautier. Si tratta di un racconto che descrive l’esistenza di figure ultramondane, les Willis, appunto, fantasmi, spiriti, streghe vendicative nei confronti dell’uomo che tradisce la sua donna e che viene punito appunto con la morte. Una sorta di acceso spirito femminista d’antan, il contrario del delitto d’onore, che avrebbe probabilmente portato a morte lo stesso Puccini e quasi tutto il sesso maschile presente ieri sera a teatro. Eppure questa suggestione aveva preso piede in quegli anni dell’ottocento, già nel Lago dei cigni d Tchaikovsky, nella Loreley di Catalani, in larga parte dei temi prediletti dalla Scapigliatura e nello stesso saggio di Einrich Heine sugli spiriti e i demoni in Germania.

Il tema dell’ultramondano è avvincente, d’altronde, e quando si sposa con una vendetta lo é di più. Anche perchè nel caso della trama dell’opera di Puccini, solo un’ora e dieci di durata (con intervallo tra i due tempi che rischia di durare di più e d’altronde paradossalmente é proprio nell’intervallo che la trama si sviluppa), l’amata tradita, Anna, muore d’amore, col fidanzato Roberto che s’invaghisce d’una ballerina mentre il padre di lei chiede vendetta e la ottiene al ritorno di lui da les Willis. Tre soli gli interpreti, lei, lui e papà. Poi coro, ballerini e orchestra, che hanno largamente il sopravvento.

Dicevamo del giovane Puccini sinfonista. Questa risulta ancora la sua caratteristica mentre si accinge a scrivere lo spartito della sua prima opera. Due sinfonie all’inizio dei due atti, poi largo spazio alla musica che diventa elemento descrittivo e al ballo, presente sia nella scena del fidanzamento con coro (che noia quella serie eccessiva di Evviva, neanche fossimo alla festa del 25 aprile o del 2 giugno), sia in quella degli esseri satanici che vivono per affermare la vendetta sollecitata dallo spirito di Anna. Anche i due duetti, il primo d’amore, il secondo tra Roberto e il fantasma di Anna, con quel ridicolo “Mi tradisti, non venisti”, cacofonico assai come quel “Non dubitar” ripetuto ad libitum del primo, sono accompagnati da un intervento spesso di registro forte dell’orchestra. Più attenuata nel colore e nel tono la romanza di Roberto, “Torna a felici dì”,  che Puccini aggiunse nel 1885, durante la rappresentazione scaligera dell’opera, e quella di Guglielmo, padre di Anna (una romanza da baritono risulta piuttosto originale nel teatro pucciniano).

L’opera di Puccini, rappresentata per la prima volta al teatro Dal Verme di Milano il 31 maggio del 1884, ebbe un esito alquanto felice. E questo nonostante il floop del Concorso Sonzogno, dove non venne nemmeno premiata tra le prime e il primo posto se lo aggiudicò proprio il reggiano Zuelli con la sua Fata del nord. Forse si trattò di un tranello giocato dall’editore Ricordi che poi si aggiudicò l’opera di Puccini e iniziò una collaborazione col musicista lucchese che sarà imperitura. Le villi, col titolo originario di Les Willis, é subito esaltata dalla critica del tempo. Il più noto musicologo di quegli anni Filippo Filippi su La perseveranza scrive: “Le Willis entusiasmano. Applausi di tutto, tuttissimo il pubblico, dal principio alla fine. Si volle udire tre volte il brano sinfonico che chiude la prima parte e si è domandato tre volte il bis, non ottenuto, del duetto fra tenore e soprano, e della leggenda.» Solo Verdi é piú cauto, nel febbraio del 1885, annota: “Ho sentito a dir molto bene del musicista Puccini. Ho visto una lettera che ne dice tutto il bene. Segue le tendenze moderne, ed è naturale, ma si mantiene attaccato alla melodia che non è moderna né antica. Pare però che predomini in lui l’elemento sinfonico! Niente di male. Soltanto bisogna andar cauti in questo. L’opera è l’opera: la sinfonia è la sinfonia, e non credo che in un’opera sia bello fare uno squarcio sinfonico pel sol piacere di far ballare l’orchestra”.

Che dire oggi a tanti anni di distanza, dopo avere conosciuto tutta la produzione pucciniana e dopo che l’opera é stata graziosamente deposta per decenni in soffitta? Al di la del moderno sinfonismo, del wagnerismo imperante, di alcune pregevoli intuizioni musicali, pensiamo che in quest’opera ancora non si intravveda Puccini. Non lo si scorge né nell’armonia, che resta pigra e senza respiro, né nella melodia, che quasi mai fuoriesce da una ricerca dell’orchestra che spesso si conclude con esplosione di timpani, di fiati e di grancasse. Puccini non c’è ancora, eppure il giovane Giacomo viene già descritto, più alla luce della sua prima opera, che non della seconda, Edgar, che ebbe solo una tiepida accoglienza, come il possibile successore di Verdi.

La nuova coproduzione dei teatri emiliani dell’opera di Puccini, che a Reggio Emilia si propone come Focus Puccini e che é stata preceduta da una buona Tosca, si regge sulla regia e scenografia di Cristina Pezzoli e Giacomo Andrico, dominata dall’idea del rapporto tra natura (la foresta nel primo atto con un fotografo che poteva anche tranquillamente essere omesso) e la morte (il secondo si svolge in un cimitero). Discutibili gli interventi parlati con statua bronzea (cosi appare) presente in scena neanche fossimo a Riace. L’orchestra Bartoletti (grande direttore ammirato più vote anche a Reggio), diretta da Pier Giorgio Morandi, ha offerto una buona prova, anche nei fiati, tradizionalmente gli strumenti più a rischio nelle orchestre d’opera. Sui tre protagonisti qualche annotazione. Anna Maria Piscitelli ha tratteggiato con efficacia l’amore e poi l’angoscia di Anna e anche la sua improvvisa trasformazione in personaggio impietoso post mortem, ma qualche difficoltà ha mostrato nel registro acuto. La nostra Elena Rossi, impegnata recentemente proprio in Edgar, non poteva essere una soluzione? Michele Kalmandy è stato un efficace Guglielmo Wulf, e la sua complicata romanza é stata affrontata con la necessaria sicurezza nonostante qualche problema di intonazione abbia mostrato soprattuto nel primo atto. Matteo Lippi, intonazione perfetta, tenore lirico o lirico leggero, ha affrontato una partitura scritta per tenore lirico spinto. L’opera é stata infatti cantata da Veriano Lucchetti e dallo stesso Domingo. Lippi é tenore che ha interpretato Rodolfo e Pinkerton, infatti. Ma oggi non si può pretendere il rispetto di questi diverse impostazioni. Lippi ha cantato bene e sbagliato nulla. Con questi chiari di luna vuoi pensare a delle sottigliezze?

Leave your response!

Add your comment below, or trackback from your own site. You can also subscribe to these comments via RSS.

Be nice. Keep it clean. Stay on topic. No spam.

You can use these tags:
<a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

This is a Gravatar-enabled weblog. To get your own globally-recognized-avatar, please register at Gravatar.