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Alla radice del tramonto del Pd

La crisi del Pd parte dall’89. Attenzione. Non che sia tutta lì. Attraversa momenti successivi e si avvita in cicli congiunturali favorevoli, poi ripiomba nel vuoto, come tutte le cose (ricordate come si chiamava il Pci non ancora Pds?) senza storia e identità. Partiamo dunque da trent’anni fa. Nel mio libro descrivo con minuzia di particolari la madre di tutti gli errori. Finiva il comunismo e poi (solo dopo e a suo seguito) anche il Pci. Il comunismo del Pci non era equiparabile a quello realizzato e che svaniva coi calcinacci del Muro. Con Togliatti, ancora schiavo dell’Urss, il Pci si era dato una via parlamentare e democratica, quella “via italiana al socialismo” del quale il Migliore parlò col memoriale di Yalta, poi con Longo, nel 1968 in occasione dell’invasione sovietica alla Cecoslovacchia, prese le distanze dalla madrepatria sovietica e con Berlinguer compì lo strappo definitivo dopo il colpo di stato in Polonia del 1981.

Eppure il Pci restava un partito comunista, l’eurocomunismo e la terza via berlingueriana erano solo giustificazioni per mantenere un nome che rappresentava una storia, difficilmente rinunciabile per chi aveva creduto in oltre cinquant’anni di battaglie politiche, sindacali, anche militari e cruente. Con l’89 crolla anche quel nome e con esso vacilla un’intera storia. Si doveva fare quel che era giusto e logico e cioè costruire un grande partito socialista e democratico in Italia sulla scorta dell’esperienza socialdemocratica europea. Superare le ragioni della scissione di Livorno e più ancora del duello tra riformisti e comunisti. Craxi tentennò. Accettò di allungare i tempi, si protesse con Andreotti, sperò di tornare a Palazzo Chigi dopo il 1992. Fu l’errore che permise ai post comunisti di andare oltre. La rivoluzione giudiziaria fece il resto e aprí la strada alla trasformazione del Pci senza revisione e senza unità socialista. Sui tribunali si consumò la ragione dei socialisti sui comunisti. E addirittura la ragione finì per girarsi all’opposto.

Quel partito, con il tentativo di D’Alema, che tolse la P e fondò i Diesse, accentuandone i caratteri socialisti europei, ma senza fare i conti con la storia, tanto che Berlinguer e Gramsci erano assai più popolari, non dico di Craxi, ma anche di Turati e Nenni, e poi con quello di Veltroni dopo l’unificazione con la Margherita di Rutelli, continuò un percorso anti identitario e astorico. Col Pd nasceva addirittura un partito centauro, con una leadership (penso a quella di Renzi e del suo gruppo e all’elezione di Mattarella al Quirinale e poi alla nomina di Gentiloni a Palazzo Chigi) sostanzialmente post democristiana e una narrazione storica comunista (la riedizione de L’unità, le sue feste, le celebrazioni di Berlinguer e le mostre su Togliatti). Un unicum nel panorama europeo. Un fattore D che in fondo derivava proprio dal fattore K. Una nuova anomalia, che più che all’Europa guardava all’America, per confondersi e per confondere.

Questo partito anomalo, senza storia e senza identità, o quanto meno con storia e identità chiaramente contraddittorie, con le elezioni europee del 2014 pareva un modello da seguire. Aveva raggiunto un risultato strabiliante. Ma poi, messo alla prova quotidiana del governo e ancor più delle sue divisioni e scissioni, che altro non sono che la prova della sua debolezza identitaria e del grado minimo di appartenenza, si é sgretolato. Non essere socialdemocratico non gli ha permesso di non cadere in una crisi anche peggiore degli altri partiti socialdemocratici, e in più oggi gli apre la via a possibili nuove scissioni. Il Pd si avvia dunque a celebrare un possibile e definitivo default trent’anni dopo la sua origine viziata da mancanza di rispetto della storia e della logica. Alla fine tutto torna all’origine, ma purtroppo, come diceva Eraclito “non si può discendere due volte nel medesi