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Il declino

Un giorno Gianni De Michelis mi confessò: “Siamo alla deflazione e alla disoccupazione di massa. Noi non l’avremmo consentito”. Aggiungo la riflessione di Craxi alla fine degli anni novanta sulla necessità di pretendere la revisione dei parametri di Maastricht, puntando sul fatto che l’Europa non avrebbe mai potuto fare a meno dell’Italia. E mi chiedo se il declino dell’Italia, così ben puntualizzato da Ugo Intini nel suo pregevole pezzo sull’Avanti, non sia anche il frutto della debolezza della nostra classe dirigente, anzi della sua ultra ventennale mancanza di autonomia e autorevolezza. L’autonomia della politica era un elemento caratterizzante della cosiddetta prima Repubblica. Anzi era la politica che invadeva spesso altri poteri, da quello economico-finanziato a quello giudiziario. E tutto questo era comunemente accettato perché se ne riconosceva l’autorevolezza.

L’azione dei magistrati, almeno in Italia, ha approfittato dell’indebolimento della considerazione popolare del potere politico e della sua funzione quarantennale dopo la caduta del muro e del comunismo. Che non segnò la fine della storia, ma di un’epoca, basata sulle contrapposizioni ideologiche e di sistema. Questo ha portato, come conseguenza, forse inevitabile, forse studiata, alla creazione di un sistema politico debole e alla formazione di una classe dirigente assai meno autorevole, incapace di imporre e di non subire scelte che minavano gli interessi nazionali. Partiamo da Maastricht e dal cosiddetto patto di stabilità. Perché accettare senza fiatare il vincolo del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil e perché non imporre la necessaria distinzione tra spesa corrente e investimenti nel conteggio di quel vincolo? Sì, ci sono state urla, declamazioni e qualche attenuazione delle rigidità, conseguite in particolare dal governo Renzi. Resta il fatto che Spagna e Francia sono uscite per anni dal quella barriera solo formalmente invalicabile traendone anche vantaggi sul piano dell’incremento dello sviluppo.

Si dice: ma l’Italia ha il debito più alto. Certo. Precisiamo però che il debito che alla fine del governo Craxi era all’87 per cento del Pil, é oggi salito al 132-133 per cento. E questo nonostante il rispetto di tutti i vincoli compreso quello del fiscal compact che porta oggi il rapporto tra deficit e Pil a poco più del due per cento. Non c’é dubbio che la situazione italiana (il nostro Paese é l’unico che ancora non è tornato ai livelli pre crisi del 2007) é fortemente intrecciata con la mancanza di una leadership riconosciuta. Ma c’é di più. Scrive opportunamente Intini: “Nel 1994, il nostro prodotto interno lordo pro capite era il 92% di quello della Germania: adesso è il 75. Era il 95% di quello della Francia: adesso è l’81. Era il 137% di quello della Spagna: adesso è il 107. E il sorpasso degli spagnoli è ormai cosa fatta. Gli italiani non lo sanno, ma da queste cifre vengono la rabbia disperata, l’invidia e il rancore che ci avvelenano.”.

Aggiungiamo che il nostro Pil viaggia ancora di poco sopra lo zero, mentre quello della Spagna, che da due anni é quasi senza governo, é stato nell’anno in corso il più alto d’Europa, attorno al 2,5 per cento. L’ultimo rapporto Censis segnala che é l’incertezza il sentimento prevalente e che il pessimismo sul futuro prevale nettamente sull’ottimismo che é tale solo per il 14 per cento degli italiani, mentre un italiano su due é addirittura favorevole all’uomo forte al potere. Il declino dell’Italia é dunque ben avvertito dagli italiani. Se pensiamo alla forte diminuzione del potere d’acquisto pro capite rispetto agli anni ottanta, e questo in controtendenza con gli altri paesi europei, allora é facile desumere che quello che servirebbe é un salto di qualità.

Inutile girarci attorno. Per aumentare lo sviluppo, diminuendo anche il debito, é necessario da un lato un massiccio piano di investimenti pubblici e, attraverso la defiscalizzazione, anche privati, e una diminuzione, selettiva, della spesa, che provvedimento come quota cento e reddito di cittadinanza hanno ulteriormente appesantito. L’alta evasione fiscale, che non é solo grande evasione, ma in Italia si propone innanzitutto, e per la percentuale maggiore, come micro evasione di massa, può consentire solo parziali recuperi. E se si decide di colpire a largo raggio ecco la reazione delle associazioni, dei sindacati di categoria, di taluni partiti politici che non a torto ritengono la micro evasione alla stregua di un reddito aggiuntivo indispensabile per le famiglie e per i consumi. Capace oltretutto di variare tutti i parametri sulla povertà, come le previsioni sul reddito di cittadinanza hanno esplicitamente rilevato.

Evidente che per invertire questa tendenza, che appare inarrestabile, al declino occorrerebbe un governo autonomo e autorevole, capace di portare a Bruxelles un piano di investimenti pubblici di oltre cento miliardi unito a taglio alle tasse e a diminuzioni di spesa. Mancano però i presupposti: il governo é debole e lacerato, per di più palesemente subalterno a poteri finanziari e giudiziari, non ha il coraggio di operare tagli su nulla e non ha la forza per imporre all’Europa un piano di investimenti massicci. Chi é causa del suo mal pianga se stesso. Noi possiamo solo rimpiangere una politica e una classe dirigente che non ci sono più.