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Il governo del dopovirus

Visto che é vulgata comune paragonare questa lotta contro una gravissima epidemia a una guerra, dovremmo fin d’ora ipotizzare una soluzione per il dopoguerra, cioè il dopovirus, che non si discosti troppo da quella adottata nel 1945. Ci sono forti e indiscutibili analogie con la situazione di allora. Psicologicamente il virus ha seminato non minore paura dei bombardamenti. Non esagero. Oltretutto si tratta di un evento più subdolo, perché invisibile, senza boati rumorosi, senza squarci sul terreno, senza edifici abbattuti, un nemico che può infettarti e a cui puoi soccombere solo per aver dato la mano al più caro amico tuo, come il protagonista di Un ballo in maschera (e anche quella stretta di mano gli fu fatale). Non sappiamo se al termine, ammesso che ci sia un punto e a capo come in una guerra e non un logorante e continuo sovrapporsi di numeri mai vicini allo zero che si protrae per mesi in attesa del vaccino risolutore o almeno di una cura efficace, gli italiani e gli europei avranno maturato idee diverse sui loro governi e sui partiti che compongono i rispettivi sistemi politici, sullo stato e sulla società. Ma soprattutto non sarà molto diversa da un dopoguerra la situazione economica con migliaia di aziende che salteranno, con centinaia di migliaia di lavoratori a casa, con un debito crescente, che forse arriverà a toccare, in rapporto al Pil, i vertici del 1921, alle prese con le conseguenze della prima guerra mondiale e della guerra civile. Il problema non consiste tanto nel superare i vincoli europei e i patti di stabilità che il virus ha azzerato, ma di trovare interlocutori che comprano il nostro debito, il più alto e che, giocoforza, diverrà altissimo. Il mio partito ha di fatto solo un ottimo senatore e non può decidere un bel niente, ma quando sarà il momento e se dovessimo, come avverrà, essere consultati, personalmente opterei per una soluzione analoga a quella del secondo dopoguerra (quella del primo fu diversa per l’ottusità dei socialisti che pensavano di fare come in Russia). Oggi sono tramontate vecchie ideologie e anche radicate certezze. Ma un governo per la ricostruzione, lo chiamerei proprio così, a me pare l’unica soluzione. Mi si dice che é complicato perché ci sono Salvini e la Meloni. Ma bisogna fare in modo che anche loro si assumano le rispettive responsabilità di fronte alle macerie su cui bisognerà intervenire. Troppo facile, troppo comodo abbaiare contro il governo dall’opposizione. E se sceglieranno questa seconda strada allora dovranno essere indicati come irresponsabili di fronte al paese. Nel 1945 si unirono monarchici e repubblicani, comunisti legati a Mosca e democristiani legati all’America, chi aveva in cuor suo il sogno di una rivoluzione proletaria e chi, come i liberali, erano espressione del capitalismo sopravvissuto. Le differenze erano più grandi. E’ vero, c’era un nemico comune, il nazifascismo, contro il quale insieme, ma non certo in egual misura, avevano combattuto. Oggi c’é un’epidemia che ha fatto morti d’ogni genere, ricchi e poveri, vecchi e anche meno vecchi, donne e uomini, asiatici, europei, americani del Nord e del Sud. Un’epidemia mondiale, dove, contrariamente a una guerra, non ci saranno vincitori e vinti. E a fronte della quale sinistra, destra e centro, sia pur con qualche sfumature, hanno accettato gli stessi provvedimenti, non ultimo dei quali la soppressione di molti diritti di libertà. Una tragedia che non é finita e di fronte alla quale il problema non sarà più quel che si pensava ieri, ma quel che si penserà domani per ricostruire l’Italia. Un governo di ricostruzione ha bisogno di tutte le forze e dei migliori suoi uomini, come Mario Draghi, eccellente presidente della Banca centrale europea, ha bisogno di tutti i leader politici coinvolti e anche dei leader sindacali e dei rappresentanti della maggiori categorie economiche. Bisognerà unire l’Italia nel più grande sforzo comune del dopoguerra.