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Mieli e i libri su Livorno

Con due pagine del Corriere Paolo Mieli ricorda la scissione di Livorno di cent’anni fa e cita i numerosi libri scritti, tranne quello di Ezio Mauro, da storici o dirigenti comunisti su quell’evento, in particolare quelli di Canfora, Ranieri e Macaluso. Credo non sia male ripetere, con tutto il rispetto e l’attenzione per i loro contributi, che la scissione di Livorno non può essere un affare privato dei comunisti. Anche per questo tra qualche giorno uscirà il mio libro intitolato “L’ombra di Mosca, la scissione comunista e le ragioni di Turati”, edito dall’editrice Città del sole di Reggio Calabria. Ai comunisti, o ex comunisti, semmai dovrebbe essere chiesto primariamente di riconoscerne il grave errore compiuto, come ammise lucidamente Umberto Terracini, che di quella scissione fu uno dei protagonisti. Fu un errore, non solo perché indebolì a frazionò il movimento socialista, ma soprattutto perché ne prospettò la più assoluta subalternità ai voleri di Mosca. Il vero bersaglio dell’Internazionale comunista e del suo delegato al congresso, il bulgaro Kabatkciev, era infatti Giacinto Menotti Serrati, il massimalista filo bolscevico che, detenendo la maggioranza dei consensi nel Psi, aveva portato il partito a chiedere l’adesione all’Internazionale comunista al Congresso di Bologna del 1919, ma che s’era opposto, in quello di Livorno, a due dei 21 dictat del Comintern, giudicati indispensabili dal secondo Congresso dell’Ic per accogliere il partito nel suo seno, e cioè quelle relative all’immediata espulsione dei riformisti e al cambio del nome da socialista a comunista. Serrati si pentì a tal punto che poi, per salvare l’adesione all’Internazionale comunista, sarà costretto a sacrificare Turati e gli altri alla viglia della marcia su Roma e poco dopo ad aderire lui stesso al Pcdi. Determinando così una divisione in tre, anziché in due, partiti. Ma il congresso di Livorno non può essere considerato solo quello della scissione comunista voluta da Mosca. Quel congresso segnò invece la vera divisione, che i riformisti, contrariamente a quanto aveva consigliato la Kuliscioff, non ebbero volontà di sancire con una scissione “a destra”, tra due metodi: quello  rivoluzionario, totalitario, bolscevico e quello democratico, gradualista, pacifico. Tutto sommato si tratta di due metodi che rappresentano la sostanza delle divisioni a sinistra già a partire dalla nascita del partito, segnato appunto dalla contrapposizione e dalla scissione tra socialisti e anarchici. Ma nel 1921 questo contrasto era accentuato, governato e regolato dall’evento della rivoluzione sovietica del 1917, che aveva posto in un cantuccio vecchie credenze sul socialismo “che verrà” e che aveva proposto un punto fermo sul socialismo “che era già avvenuto”. La vera divisione, che a Livorno si manifesterà soprattutto con l’intervento di Filippo Turati, era tra quanti volevano fare e immediatamente come in Russia, cioè praticare una rivoluzione armata e poi instaurare la dittatura del proletariato, e chi rifuggiva da questa infatuazione per motivi politici, perché “la maggioranza per governare non ha bisogno di dittature mentre il governo di una minoranza si chiama arbitrio” sostenevano all’unisono Turati, Prampolini, Treves. Su questo emergeva l’idea contrapposta del socialismo che per Turati non era “l’illusione di un giorno” né la ricerca di un’ora X, ma la costante e diuturna e incessante “evoluzione delle cose e delle teste.”. Attenzione perché in questo intreccio tra cose e teste sta il grande tema di un socialismo che non subordina l’uomo alla struttura economica, ma gli consente un suo sviluppo anche indipendente, attraverso l’educazione. Il socialismo come evoluzione umanitaria dunque contrapposto al socialismo rivoluzionario che punta solo alla conquista del potere. Ma la divisione si accentuava anche perché i riformisti consideravano il metodo violento non solo inefficace e pericoloso, ma moralmente ripugnante. Su questo si era sviluppata un’aspra polemica tra L’ordine nuovo e La Giustizia in cui l’autore (l’articolo non era firmato), Gramsci o più probabilmente Terracini, aveva sparato fuoco e fiamme contro i riformisti di Reggio Emilia. In Prampolini al valore della democrazia e all’idea che la dittatura del proletariato sarebbe stata in fondo una dittatura del partito, cioè di Bordiga e Bombacci (altro che, come gli ribattevano i suoi oppositori, una dittatura impersonale, perché ogni potere é sempre esercitato dagli uomini) si sommava anche il rifiuto morale della violenza che per lui non significava non saper “dare la propria vita” ma non poter “dare la vita degli altri”. Concetto estrapolato dal suo evangelismo. Sul tema della democrazia e della violenza si giocò allora una partita decisiva. Fondamentale fu il diniego della maggioranza del Psi a rendere possibile un governo riformatore nel primo dopoguerra quando socialisti e popolari detenevano la maggioranza dei seggi alla Camera e nonostante il discorso di Turati, Rifare l’Italia, che Anna Kuliscioff gli impose di svolgere alla seduta inaugurale della Legislatura aperta con le elezioni del 1919, che ne prospettava concretamente il programma. La progettazione, e in taluni casi la realizzazione, degli intenti violenti, spesso frenati dalle contestate azioni della Cgdl durante l’occupazione delle fabbriche, le spavalde esternazioni di una dittatura da instaurare in Italia sulla scorta del modello leninista sovietico, crearono un fronte opposto sempre più combattivo e sempre più violento che poi, e anche questo Turati l’aveva previsto nel suo discorso di Livorno, avrebbe finito per travolgere la democrazia e l’insieme delle strutture pazientemente edificate dai socialisti. Quello che servirebbe, almeno storiograficamente, non é certo saltare a piè pari il tema della scissione, per arrivare d’acchito alla svolta togliattiana del 1944 (quella gramsciana del congresso di Lione del 1926 altro non determinò che la defenestrazione di Bordiga in funzione della più completa acquiescenza ai dettami sovietici), per arrivare infine allo strappo berlingueriano. Qui non é in discussione la storia del Pci ma la sua nascita, senza la quale, peraltro, non avrebbe preso piede alcuna storia. Restano gli sviluppi che da essa partorirono in Italia. Innanzitutto lo scarso suo peso elettorale che alle successive elezioni del 1921 era tra il 3 e 4%. Fare la rivoluzione con una percentuale di consensi del genere doveva essere alquanto complicato. Poi lo sviluppo rapido di un movimento fascista che era nato come repubblicano e di sinistra, ma anti bolscevico e come tale venne poi utilizzato da chi repubblicano e di sinistra non era. L’onestà di Terracini consentì, agli inizi degli anni ottanta, di riconoscere l’errore. Che in fondo era errore suo ma anche di Serrati che al Pcdi aderì da scomunicato pentito nel 1924. Nel 1989 il discorso di Turati, riferito alla conversione dei secessionisti comunisti, che a suo dire sarebbe stata inevitabile, venne salutato come una profezia. Peccato che non abbia potuto trovare un immediato riscontro politico. In fondo all’adesione piena e convinta del socialismo riformista e liberale, unica sua versione ancora attuale, e forse anche unica sua declinazione capace di salvare ancora il concetto di socialismo, poteva dischiudere nuove prospettive politiche che gli errori degli uomini e l’insorgere di nuove invadenze hanno precluso. Queste ultime, parlo ovviamente di quelle giudiziarie, hanno cosi finito in Italia per capovolgere le ragioni e i torti della storia. Si tratta a mio giudizio di una conseguenza molto grave. E difficilmente rimediabile.