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Storia semiseria del Pd

Prima tutti veltroniani. D’altronde l’idea di un partito americano in Italia era in linea con l’ispirazione kennediana del leader che non era “mai stato comunista”. Tutti veltroniani perché il Pd era un po’ anche suo. Superare, se non ignorare, il contesto politico europeo era un ottima soluzione per non affrontare, anzi seppellire, la questione socialista e la confluenza del partito della Margherita garantiva, col peso della sua tradizione democristiana, che dal socialismo europeo si doveva star fuori. Meglio Obama e il suo “Yes we can” subito tradotto e spalmato nella propaganda elettorale del 2008 in un italico “Si può fare”. Slogan preso a prestito senza neanche il pagamento dei diritti d’autore. Il Pd ottiene un risultato ottimo, oltre il 33%, ma viene sconfitto da Berlusconi che per la terza volta é chiamato dal popolo italiano a salire le scale di Palazzo Chigi. Un problemino. Quell’alleanza con Di Pietro che, abilitato come partito parlamentare in base a un apparentamento negato ad altri, comincia a vampirizzarlo. La sconfitta alle elezioni sarde e alle amministrative, con Di Pietro che spopola, spingono Veltroni ad abbandonare e nel 2009 viene elevato al soglio democratico quel Franceschini che proviene dalla Margherita. Sembra una segreteria di transizione e invece il ferrarese, che poi riuscirà nell’impresa nn facile di perdere il suo collegio e il suo comune con le elezioni del 2018-19, si ramificherà e con l’appoggio di Piero Fassino, piuttosto amareggiato perché da segretario dei Diesse nessuno gli aveva chiesto di capeggiare il Pd, è tutt’oggi a capo di una corrente tra le più forti del partito. Così in molti diventano franceschiniani. Si rifanno le primarie il 25 ottobre del 2009 dopo elezioni europee assai negative per il Pd e si presentano in tre: lo stesso Franceschini, Pierluigi Bersani e Ignazio Marino che sarà poi sindaco di Roma e sfiduciato dal suo stesso partito grazie all’azione del brillante Orfini. Vince, ovviamente. Bersani, con Rosy Bindi presidente e Enrico Letta vice segretario, e subito dopo l’ex segretario della Margherita Francesco Rutelli abbandona il Pd fondando l’Api. Prodi, che all’inizio aveva benedetto l’operazione, si tira da parte e così pure Giuliano Amato. Dopo la crisi del governo Berlusconi, dovuta alla rottura con Fini che esce dal Pdl fondando Futuro e libertà, si crea un’area centrista e l’Udc di Casini si dice pronta a una collaborazione governativa col Pd. Nasce il governo Monti nel 2011 e nel 2013 Bersani, che vince le primarie per la leadership della coalizione “Italia bene comune” contro l’enfant prodige Matteo Renzi, si candida alla guida del governo. Tutti sono bersaniani e sembra fatta. Invece le elezioni del 2013 mettono in evidenza un nuovo movimento, fondato dal comico Beppe Grillo, che spariglia la scena. Bersani corteggia i grillini in streeming ma non ce la fa e al governo arriva Letta con l’appoggio anche di Forza Italia. Nell’aprile del 2013, dopo la mancata elezione a presidente della Repubblica di Franco Marini e di Romano Prodi (alla fine verrà eletto per la seconda volta Giorgio Napolitano) Bersani si dimette da segretario. E’ il momento magico di Renzi che l’8 dicembre del 2013 diventa segretario del Pd, dopo il breve regno dell’ex socialista Guglielmo Epifani (ai socialisti al massimo é riservato il ruolo di tappabuchi). Tutti diventano improvvisamente renziani e quando il leader fiorentino decide di sostituire Letta alla presidenza del Consiglio tutti lo seguono compatti. Mai accoltellamento, neppure quello di Cesare, fu più popolare. Così quando alle europee il presidente e segretario porta a casa il 40% dei voti si sprecano gli osanna. Ottanta euro valgono un successo oltre le previsioni. Renzi, che porta il Pd nel Partito socialista europeo, spinge sull’acceleratore e vuole riformare la Costituzione. Al Nazareno incontra Berlusconi e stabilisce un patto, poi stracciato da quest’ultimo a seguito dell’elezione di Mattarella al Quirinale e non di Giuliano Amato. E inizia la decadenza. Renzi perde il referendum del dicembre 2016 e al suo posto a capo del governo arriva Gentiloni. Bersani, D’Alema, Epifani, Speranza se ne vanno dal Pd e fondano il movimento Dp. Renzi, che aveva promesso che si sarebbe ritirato a vita privata se avesse perso il referendum nel 2017 rivince le primarie, ma l’anno dopo perde le elezioni e la segreteria. Il suo 40% diventa un misero 18. E nel Pd i renziani flettono vistosamente. Arriva Zingaretti che porta il suo partito prima all’opposizione del governo gialloverde, poi, su iniziativa di Renzi, in quello giallorosso. Il presidente é lo stesso: Giuseppi. Il primo Giuseppe di centrodestra e il secondo di centrosinistra. Renzi a quel punto, con Rosato, la Boschi e altri, esce dal Pd e fonda Italia viva. Nel Pd tutti diventano zingarettiani anche se nessuno capisce esattamente quel che voglia fare il segretario. Lo rivela Il suo guru. Goffredo Bettini che parla di un’alleanza strategica coi Cinque stelle capeggiata da Conte, il quale però non riesce a moltiplicarsi per tre e dopo la crisi aperta da quel ragazzaccio di Matteo deve dimettersi per lasciare il posto a Draghi. Zingaretti, che aveva solennemente dichiarato “O Conte o il voto”, si rimangia tutto e appoggia Draghi. Poi, forse avvertendo il solo Goffredo, si dimette da segretario dichiarando di vergognarsi del suo partito. Anche molti elettori pare siano in preda allo stesso sentimento e il Pd crolla nei sondaggi al 14%. Che fare? Non resta che richiamare a casa lo sdegnato Letta, non più iscritto al Pd e rifugiato a Parigi per non sentir puzza di bruciato rintanandosi nei libri. E Letta come Garibaldi proclama il suo “Obbedisco”. La conclusione é quella solita. Tutti, adesso, sono diventati lettiani. Ma fino a quando?