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125 anni e non li dimostra (i socialisti di fronte alla guerra, seconda puntata)

Su iniziativa di Filippo Turati, che il giornale non lo diresse mai, la redazione dell’Avanti, nel 1911, fu trasferita da Roma a Milano. Nella capitale rimase solo una redazione locale. Il passaggio nella capitale del Nord testimonia una visione della politica che poco si basava sulla centralità del Parlamento, ma era piuttosto rivolta alle tensioni e ai movimenti che soprattutto nelle grandi fabbriche allora si formavano. Al congresso nazionale di Reggio Emilia del 1912 si affacciò con una irruenza mai vista un giovane leader carismatico romagnolo: il rivoluzionario Benito Mussolini. Costui fu protagonista, con la sua mozione, dell’espulsione dei cosiddetti riformisti di destra, Bissolati, Bonomi, Cabrini, che intendevano, dopo che Bissolati aveva salito le scale del Quirinale per testimoniare la solidarietà al re, scampato ad un attentato, continuare ad appoggiare il governo Giolitti nonostante l’impresa di Libia iniziata da un anno. Mussolini si impose come il nuovo leader socialista, ma alla segreteria del partito fu posto l’anziano Costantino Lazzari e il futuro duce si prese la direzione dell’Avanti, dopo la breve parentesi di Bacci dal luglio al dicembre del 1912. Dirigere l’Avanti era ritenuto più politicamente significativo che non guidare il partito. Sarà così almeno fino alla fine degli anni quaranta. Giacinto Menotti Serrati, nel primo dopoguerra, sarà alla direzione dell’Avanti pur contando sulla maggioranza congressuale sia a Bologna nel 1919 e sia a Livorno nel 1921. Nenni dirigerà l’Avanti quando nel 1924 mise in minoranza i terzinternazionalisti di Serrati che proponevano l’assorbimento nel Pcdi. E Nenni sarà direttore dell’Avanti anche nell’immediato secondo dopoguerra lasciando prima a Pertini e poi a Basso la segreteria (nel 1946 col congresso di Firenze si formò una maggioranza relativamente autonomistica che pose ivan Matteo Lombardo alla guida del Psi). Al congresso di Ancona del 1914 Mussolini potrà portare un bilancio felice della sua esperienza. L’Avanti aveva aumentato i suoi lettori fin oltre le 100mila unità e la sua politica rivoluzionaria e contro la guerra lo aveva posto di fatto alla guida del Psi. Tutto cambiò pochi mesi dopo. Dopo il fondo del 18 ottobre “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”, esplose il caso. Mussolini non faceva altro che sintonizzarsi alle posizioni che già nel Psi Graziadei aveva interpretato e che non erano sostanzialmente difformi da quelle degli stessi riformisti. A giudizio di Mussolini non si poteva essere spettatori se in gioco c’era “un dramma grandioso”. Era possibile la neutralità assoluta con una distinzione così marcata tra guerra e guerra? Anche Turati non aveva sostenuto cose molto diverse e aveva scritto che la sua neutralità, se non era “attiva e operante”, era pur tuttavia “non dogmatizzante e imperativa”. Il ché non era molto differente. Infatti Turati commenterà: “Se il direttore del nuovo giornale avesse continuato nell’atteggiamento assunto nei suoi ultimi articoli pubblicati sull’Avanti (…), molti proseliti avrebbe potuto fare”. E questa era anche l’opinione di Giovanni Zibordi, che scrive su “La Giustizia” del 18 ottobre: “Che ha detto di strano Mussolini?”. Non ha aggiunto nulla se non “che mentre noi ci saremmo opposti anche con la rivolta ad una guerra in appoggio dell’imperialismo teutonico, potremo invece opporre soltanto la nostra protesta ad una guerra contro l’Austria e la Germania”. Da Torino il giovane Antonio Gramsci applaudì all’articolo del suo leader Mussolini. Il fatto é che dopo le sue dimissioni dall’Avanti e la Direzione del Psi del 18-21 ottobre che si concluse con il suo isolamento (il suo ordine del giorno venne votato solo da lui)) nonché l’immediata sua sostituzione da direttore dell’Avanti con la triade Lazzari, Bacci e Serrati, Mussolini si sentiva ormai fuori dal partito, ancora prima di essere espulso. Ma Mussolini andò subito oltre. Egli, che sull’Avanti del 2 settembre definiva “un delitto”, “un disastro doloso” la violazione della neutralità, crede adesso e ha dichiarato nelle sue interviste al “Corriere della sera” e a “Il secolo”, che la guerra contro l’Austria non solo si farà, ma deve farsi. “L’Italia interverrà”, egli ha detto, “dovrà intervenire, se no la monarchia si vedrà sorgere in faccia lo spettro della rivoluzione”. Il caso Mussolini si allarga oltremodo dopo la pubblicazione del nuovo giornale “Il popolo d’Italia”, finanziato da settori interventisti, che uscì il 15 novembre. Il 24 novembre la Federazione milanese propose la sua espulsione dal Psi, e Mussolini si indignò per la mancata discussione delle sue idee e per l’impossibilità di sviluppare la sua difesa. Più o meno le stesse accuse lanciate da coloro che egli aveva espulso due anni prima al congresso nazionale del Psi di Reggio Emilia. E che adesso, paradossalmente, si erano trovati in consonanza con lui. Mussolini decide, dunque, di fondare un suo giornale per parlare alle masse socialiste e proletarie. Il 15 novembre 1914 esce Il Popolo d’Italia con l’aiuto determinante di Filippo Naldi, direttore del “Resto del Carlino“, che procura i finanziamenti necessari. Dal 19 novembre l’“Avanti!“ accusa di indegnità morale l’ex direttore a proposito dell’origine dei fondi e dei tempi con i quali nasce “Il Popolo d’Italia“. Il 24 la sezione socialista milanese approva a grande maggioranza la proposta di espellere Mussolini. Il 29 si riunisce a Milano la direzione del Psi per deliberare sul “caso Mussolini”. Dopo un’intera giornata di discussioni, Mussolini viene espulso dal Psi. Mussolini non era certo l’unico socialista passato all’interventismo, con la motivazione della guerra democratica agli imperi centrali. Interventisti, nel Psi, si possono rintracciare sia tra i rivoluzionari sia tra i riformisti. Tra questi ultimi il trasferimento dal dogma di Lazzari, “né aderire ne sabotare”, che per Turati era un pò la giustificazione sia dell’aderire sia del sabotare, é di minore rilievo. Leonida Bissolati fu tra i primi e partì per il fronte nonostante l’età. Con lui Gaetano Salvemini, riformista a modo suo, e che aveva sempre polemizzato con una visione nordista del riformismo turatiano, mentre l’irredentismo del socialista Cesare Battisti ha altre radici. Tra i rivoluzionari svetta Alceste De Ambris, che sarà dannunziano e antifascista, poi Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, ma anche Giuseppe Di Vittorio, che saranno dirigenti comunisti, Pietro Nenni, allora repubblicano e poi direttore dell’Avanti dal 1922, ma soprattutto quei socialisti che poi seguiranno Mussolini nel suo percorso politico. Tra gli altri i sindacalisti rivoluzionari che fonderaano l’Alleanza per il lavoro, dopo la scissione dell’Usi, cioè Edmondo Rossoni, Cesare Rossi, Michele Bianchi, ma anche il cremonese Farinacci, bissolatisno d’origine, Filippo Corridoni che morirà in trincea nel 1915 e che sarà celebrato dal regime anche se, legato com’era a De Ambris si potrebbe anche escludere la sua adesione successiva al fascismo. La conversione all’interventismo coinvolse anche Turati ma solo dopo Caporetto. Cioè dopo che la guerra s’era trasformata in guerra di resistenza all’invasine austrotedesca. Turati assieme a Treves scrisse un articolo pubblicato su Critica Sociale del 1-15 novembre 1917, dal titolo “Proletariato e resistenza”. Il socialismo riformista dava tutta la misura del suo patriottismo. All’indomani della catastrofe di Caporetto i due principali esponenti della corrente riformista scrivevano: “Quando la patria è oppressa, quando il fiotto invasore minaccia di chiudersi su di essa, le stesse ire contro gli uomini e gli eventi che la ridussero a tale sembrano passare in seconda linea, per lasciare campeggiare nell’anima soltanto l’atroce dolore per il danno e il lutto, e la ferma volontà di combattere e di resistere fino all’estremo”. Questa posiziond, poi esolivitatz con l’intervento alla Camera.  Nel febbraio del 1918 rispondendo al presidente Orlando che aveva dichiarato alla Camera: “Grappa é la nostra patria” Turati aveva ribadito: “Questo e per tutti, per tutta l’assemblea”. E nel giugno 1918, nel momento della battaglia del Piave, Turati dichiarava che non avrebbe votato la fiducia al governo, ma esprimeva la solidarietà anche dei socialisti “con l’esercito che in questo momento combatte per la difesa del Paese”. “Noi ci sentiamo tutti rappresentanti della nazione in armi”, e i socialisti si sentono “anche più di altri”, i rappresentanti di “questo popolo che oggi soffre, combatte e muore”. Per Turati quella non era “l’ora delle discussioni teoriche, delle recriminazioni e delle polemiche”, perché “non è l’ora delle parole, mentre lassù si combatte, si resiste, si muore, per così vasto e profondo arco di confine italiano, e le nostre anime sono tutte egualmente protese nella angoscia, nella speranza, nello scongiuro, nell’augurio”. Queste posizioni che parevano assolutamente coerenti con l’impostazione socialista, da sempre contro la guerra, ma mai contro la difesa in armi dell’indipendenza nazionale, anzi che dal Risorgimento aveva tratto origine e alimento, suscitarono una reazione molto dura dalle fila massimaliste che allora dominavano il Psi. Venne anche convocato un congresso molto straordinario a Roma,  con la guerra ancora in corso, i primi giorni di settembre del 1918. Turati sali le scale dell’esecuzione. Ma fu risparmiato. Per lui non finiranno mai i processi politici.  Le sue ragioni saranno solo postume.