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Referendum: tre no e due sì

Dunque si voterà l’8 e il 9 giugno sui quesiti dei cinque referendum voluti dalla Cgil di Landini. E’ giusto riflettere su ognuno dei cinque ed esprimere una valutazione. E prima di tutto su quella, che appare prevalente, almeno nella maggioranza di governo, di disertare il voto. A me pare pienamente legittima quest’ultima scelta, dal momento che per validare i risultati di un referendum occorre superare di un voto il 50% degli aventi diritto, oltre al fatto che questa indicazione é stata più volte utilizzata, anche dalla sinistra e dallo stesso Craxi in occasione del referendum sulla preferenza unica del 1991 che, contrariamente a tutte le previsioni, superò il quorum. Andiamo per ordine. Voterei no ai primi tre quesiti: quello sul Jobs act, quello sull’eliminazione di un risarcimento (per ottenerne uno maggiore) in occasione di un licenziamento nella aziende inferiori ai 15 dipendenti e, il terzo, per eliminare le normative, che consentono alle aziende di non motivare un’assunzione a tempo determinato per i primi 12 mesi. E’evidente che in tutti e tre i casi i dipendenti e perfino i disoccupati non ci guadagnerebbero nulla. Il Jobs act ha eliminato parzialmente un articolo, il 18, dello statuto dei lavoratori, che non era stato ideato da Brodolini ma da Donat Cattin, e che Giugni proponeva di cambiare o quanto meno di riformulare già alla conferenza di Rimini del 1982. Era evidente che introdurre il reintegro, dopo un ricorso accolto dal giudice per le aziende superiori ai 15 dipendenti, per i licenziamenti ingiustificati (caso per la verità piuttosto raro) portava le piccole aziende, il 95% di quelle italiane, o a frenare lo sviluppo o ad affrontarlo in modi diversi e senza aumentare i dipendenti con contratto a tempo indeterminato. Il Jobs act ha introdotto il contratto unico a tutele crescenti, mentre il reintegro viene mantenuto per licenziamenti per motivi religiosi, politici, di razza, sesso, età, per partecipazione ad attività sindacali, nonché per motivo che richiami la disabilità fisica o psichica del dipendente. Ed é mantenuto altresì per tutti gli occupati con contratto antecedente il 2015, prima dell’entrata in vigore della legge. Ora questa parte del Jobs act su cui verte il quesito posto dalla Cgil si inquadra in tutti i benefici recati: dalla possibile proroga dei contratti a tempo determinato per un massimo di cinque volte, dopodiché i contratti diventano automaticamente a tempo indeterminato, la creazione della Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego) che copre con un sussidio tutti i dipendenti a tempo indeterminato o determinato, nonché gli incentivi e la decontribuzioni per tre mesi per le nuove assunzioni. Non si comprende perché abolire una parte rilevante di un progetto complessivo che ha dato risultati risultati quali l’aumento sostanzioso delle assunzioni a tempo indeterminato in Italia. Non si comprende soprattutto perché la segretaria del Pd dichiari di votare per l’abolizione di una legge che il suo partito ha voluto quando presidente del Consiglio era il segretario del Pd. Questo partito senza identità traballa costantemente tra riformismo e massimalismo. Gli altri due referendum vanno di pari passo. Possono solo disincentivare le assunzioni nelle aziende con meno di 15 dipendenti. Tre no, dunque, per lo sviluppo, l’occupazione e le tutele sociali. Due sì invece al quarto e al quinto referendum. Quello relativo alla responsabilità delle aziende appaltatrici anche in occasione di incidenti commessi dalle aziende subappaltatrici. Troppi subappalti si verificano in Italia anche esercitati da imprese che non garantiscono le necessarie misure di sicurezza. Non si possono vincere gare regolari e affidare i lavori a imprese irregolari senza pagare il fio. Sì anche alla riduzione a cinque anni del diritto di cittadinanza. Anche se preferirei che tra la richieste di ammissione ci fosse quello di un uso corrente della lingua italiana, che non é solo requisito minimo per la concessione di tale diritto, ma anche la dimostrazione, per le donne, che si vive da italiane e si hanno diritti di leggere e guardare la televisioni, andare al cinema, viaggiare sui social esattamente come gli uomini. Lo dico per esperienza diretta quando ero amministratore. Mi dovevo rifiutare di dare la cittadinanza a chi, dopo quasi dieci anni in Italia, non sapeva leggere: “Giuro sulla Costituzione”.